Davorin Starich era tenente
nella NJA, comandava un plotone meccanizzato. Era stato ferito in combattimento
il 5 ottobre del 1991, pochi chilometri a nordest di Nutar. Il suo plotone,
con il resto del battaglione, aveva lasciato pochi giorni prima le posizioni
di Odzaci, che era la sede del comando di Brigata, ma il tentativo di proseguire
di slancio fino a Vinkovci era fallito tra i meandri del Vuka, e Davorin
era stato colpito alla spalla da un colpo di Mauser, sparato da
un gruppo di civili croati, nascosti dietro l'argine sud della depressione
che stavano attraversando. All'ospedale da campo non si erano accorti in
tempo che il colpo aveva leso la spalla e dopo tre mesi di ricovero all'ospedale
militare di Novi Sad era stato congedato perché aveva perduto la
possibilità di usare il braccio sinistro. Era poi riuscito a raggiungere
Banja Luka, la città più vicina a Stratinska, il villaggio
dov'era nato, e si era arruolato nell'esercito di Mladich.
Ora è il comandante del campo
di concentramento per prigionieri bosniaci di Dubrava. E' un "campo" piccolo,
e la maggior parte dei prigionieri sono civili delle zone vicine, alcuni
però sono stati rastrellati alla periferia di Sarajevo.
Davorin è serbo, è un
ufficiale dell'Armata, cresciuto nell'amore di Tito. E' comunista, e ha
visto, in due anni, crollare un mondo intero, le idee su cui aveva basato
la propria vita e le scelte ideologiche. Prova odio per i responsabili
dello sfacelo che lo circonda, per questo disastro che ha sconvolto un
paese che lui ritiene fosse unito, che sta gettando nella guerra non solo
la sua Jugoslavia, quello che resta dell' URSS, e forse l'Europa intera.
Ma è un militare, non riesce a sopportare la violenza sui civili,
sulle donne.
La violenza è invece la caratteristica
dei politici militarizzati, fanatici o nell' ideologia o nella religione:
per essi i mussulmani, i bosniaci, sono esseri inferiori, superstiziosi,
incivili, sporchi, fannulloni. Le loro donne, intoccabili per anni, le
considerano delle potenziali adultere, che solo ora possono liberarsi dalla
schiavitù islamica imposta dai padri e dai mariti, e così
si auto-giustificano delle violenze che infliggono.
Quando arrivano nel campo i commissari
politici, col loro seguito di guardie dallo sguardo vagante e continuamente
mosso, dai modi esageratamente gentili, come di chi è conscio del
proprio potere assoluto, il comandante si sente rivoltare, vorrebbe reagire
alle violenze che vengono imposte ai "suoi" prigionieri, ma non ci riesce,
non dice nulla, non sa se lo frena la paura o quello che considera ancora
il proprio dovere di combattente che "deve" vincere, per la patria e per
il comunismo. Lo rivoltano soprattutto i "credenti", gli ortodossi osservanti
che violentano le ragazzine mussulmane che hanno seguito i genitori nella
prigionia.
Ma non fa nulla, il suo coraggio si
è spento a Nutar, con quel colpo di Mauser, o forse prima, quando
i "traditori" sloveni e croati hanno proclamato l'indipendenza, quando
la Jugoslavia è morta.
Quando i "politici" periodicamente
prendono possesso del campo per alcune ore, a volte per un giorno intero,
si chiude nel suo ufficio che è anche la sua stanza, tra le carte
e le casse di munizioni, accende la radio da campo e ascolta Belgrado,
con le finestre chiuse, pieno di rabbia, di insicurezza, di odio per sé,
per quelle bestie che sono i suoi compagni di lotta, per i bosniaci che
si meritano tutto, per la guerra che è costretto a combattere e
che non è quella per cui ha studiato e sofferto. E' una guerra di
topi, di maghi, di pope ortodossi, di sadici. Ma è ancora la sua,
l'unica che può combattere con quel braccio ferito. Quando ritorna
ad essere il comandante, pretende che i prigionieri siano trattati con
rispetto, ha punito il furbo sergente Krucko che rubava sulle razioni.
Gira per le baracche a controllare
che ci sia pulizia, che nessuno abbia rubato le coperte o i vestiti, cerca
di parlare ai bosniaci: "eravamo un solo popolo, parlavamo la stessa lingua
-maledetti gli Sloveni, altra razza, mezzi austriaci, che hanno dato la
stura a questa rovina-... avevamo un'unica bandiera, una sola patria, Tito
ci aveva unito, liberandoci!". I prigionieri evitano il suo sguardo, lo
temono, lo odiano per il suo chiudersi nella baracca del comando quando
arrivano i mostri coi giubbotti di pelle e il coltello Randall alla cintola.
Non possono capire che soffre per loro, ma neanche perché non fa
nulla, che cosa pensa, e tutto ciò li impaurisce.
Davorin mangia pochissimo, la lotta
che è dentro a lui gli toglie la voglia di vivere, ma non ancora
quella di combattere la guerra che è fuori, sempre più vergognosa,
e che è il suo vero nemico.
Così, riflette, i suoi nemici
sono tre: i suoi avversari croati, bosniaci ed "europei", i suoi orrendi
"compagni di lotta" e la guerra. L'unico alleato, che regolarmente soccombe,
è lui stesso, il suo essere uomo, unico, il suo soffrire. E' una
battaglia senza speranza, si rende conto che dovrà schierarsi col
vincitore, con la violenza, che dovrà far del male a quei disgraziati
che dipendono in tutto da lui, anche se li sente ancora come il proprio
popolo, e parlano la sua stessa lingua, sono stati suoi soldati, che ha
amato, ma che odia per le loro responsabilità politiche. Dovrà
finire per odiarli anche come individui, solo così riuscirà
ad essere quello che dovrebbe essere: il comandante di un "campo".
E non dovrà più chiudere
le finestre.
La decisione (che sembra d'odio, ma
che sarà la sua salvezza) giunge durante una delle solite visite
alle baracche: seduta su una branda, appena arrivata da chissà dove
c'è una giovane donna bionda che solleva verso di lui occhi blu
stanchi e privi anche di odio.
E' il desiderio, violento e brutale,
che prende la decisione o è il bisogno di decidere, la speranza
di non soffrire più, che lo suscita?
Egli stesso non saprebbe dirlo. Davorin
rinuncia a se stesso, d'improvviso si schiera coi suoi mostruosi compagni,
crede di aver vinto la "sua" battaglia, è passato dalla parte della
violenza, ha accettato la guerra "sporca".
Quella prigioniera sarà sua
per diritto di preda e di saccheggio, e lui sarà finalmente come
tutti gli altri. Le giustificazioni arrivano tutte: non si può continuare
a vivere due vite, la guerra è guerra, si vince solo con la spietatezza,
il nemico va eliminato, terrorizzato. Lartéguy, un ufficiale francese
che ha combattuto in Indocina, ha scritto un romanzo, che hanno studiato
in Accademia: "Né onore né gloria", in cui si teorizza l'assioma
del titolo come condizione per vincere una guerra in un mondo che è,
appunto, senza onore né gloria.
"Presluaj!": la parola ambigua, terribile
per le prigioniere, gli esce di bocca per la prima volta, violenta, insindacabile
come una condanna. Ma mentre la pronuncia non riesce a guardare gli occhi
della sua "preda", guarda per terra, con vergogna. Prima che Sloba, la
sua giovane ordinanza, possa fare un solo passo verso la donna, lei si
è già alzata con risolutezza, con sfida, e segue il comandante
che si avvia verso la baracca del comando.
Le fa cenno di attendere, mentre lui
entra e chiude la porta, lasciandola fuori assieme a Sloba. Consulta sul
tavolo i documenti d'arrivo del giorno precedente:
"Laila Grotinich, 28 anni, di Sarajevo,
laureata in Scienze Politiche a Belgrado, incriminata per essere stata
dipendente del Ministero della Cultura della Repubblica di Bosnia, catturata
il 18 novembre 1993, altezza 1.76, capelli biondi, occhi azzurri (plavi),
di nazionalità mussulmana, parla Inglese, Russo e Francese. Spia?
Occhi "plavi"? No, viola scuro, e bionda..
mussulmana? Succede in Bosnia di incontrare i frutti di sangue diverso,
illirico, dalmata, normanno, veneto... ("maledetti Italiani!").
Quegli occhi saranno miei. Bacerò
quella bocca.
Apre la porta: "Sloba, vai! - Tu, entra
!" La porta si chiude, Davorin, senza che Laila dimostri paura, sfila a
fatica con la mano sinistra la pistola dalla fondina, la chiude a chiave
nel cassetto della scrivania e toglie il caricatore all' M.70 appeso all'
attaccapanni.
"Laila": la notte, nella lingua
del Corano, la notte con gli occhi viola, con le narici distese a sentire
l'odore della rugiada sull'erba, la notte col sole nei capelli.
La mia notte (la mia Laila?).
Mia? Dovrebbe essere subito, brutalmente,
come da copione.
"Siediti sul letto". Io sulla sedia
della scrivania.
Il silenzio è una nebbia che
avvolge e sfuma decisioni, risolutezza e odio: solo il desiderio rimane,
ma non ha tempo né storia.
Ed il silenzio dura, più dura
e più è difficile romperlo, sia con un gesto che con parole,
Laila non ha mai abbassato gli occhi, lui non può più staccare
lo sguardo dai suoi. Fuori, per il semplice Sloba, per gli altri soldati,
per i prigionieri, la situazione, che prima era "strana", è ritornata
alla normalità dell'orrore, è di nuovo comprensibile, è
come Davorin aveva deciso e sperato che divenisse anche per lui.
E invece lui è lì a guardarla,
perduto in quegli occhi, in quella bocca rossa squadrata dalle labbra piene.
Finalmente parla: "chi sei?".
"Perché chiedi quello che già
sai?". Non voleva questo, voleva solo sentire la sua voce, o, forse, una
risposta che non merita ancora. Ora è troppo tardi per deludere
chi è fuori, è impossibile anche rendere di nuovo palese
la debolezza, la rinuncia, la guerra che ha dentro.
"Sloba, una branda e due coperte nella
mia stanza!", "Tu resterai qui".
Ma il "copione" tragico non viene seguito,
il "comandante" non sfiora nemmeno la sua "preda", che è come circondata
da un confine, da una terra di nessuno inaccessibile; passano giorni, notti
lunghe e spesso insonni. Laila a volte parla nel sonno, una notte urla,
e Davorin le si avvicina, e la sveglia, e la accarezza piano, come fosse
un animale ferito. Lei piange spesso, quando la luce filtra dalle persiane
sconnesse. Ancora una volta chiuse, ma per ingannare chi sta fuori questa
volta, non per nascondere Davorin a se stesso.
"Mio padre è un dervisch, -
dice Laila - conosco il sufi di Kosovska Mitrovica, e non ho mai creduto
ai loro misteri, ma forse qualcosa che ho imparato da lui mi ha
permesso di uscire da me stessa in questi mesi, e quando i tuoi compagni
pensavano di possedermi ero altrove, non so dove, ero altro, e non so cosa...
...amo il sole che sorge al tramonto
e si leva alto a mezzanotte: vedo nel buio, vedo la tua mente, Davorin,
quando dormi e io sono sveglia vicino a te e sono felice per me perché
non sei come gli altri, ma sento dentro di te urlare i lupi che sono sulle
montagne, e piangere i bambini feriti, e tu sei il lupo e il bambino ferito,
e ho pietà di te".
"Te bevoljm, Lailo, ne razumjm,
non capisco cosa sono, cosa sono stato.
Non so che pensare ai tuoi occhi, vorrei
baciarti, sei bella, dolce, ferita. Sei prigioniera e debole ma sei più
libera e più forte di me, più di ogni altro qui intorno:
chi sei, cosa sei?"
Non posso toccarla, posso solo metterle
una mano sul capo, sui capelli, quando sogna o piange. E' l'unico gesto
che non possa essere scambiato per violenza, e anche le parole, quelle
poche parole d'amore, sono lente, dolci, rare tra lunghi silenzi. Anche
lo sguardo di Davorin è mite, discreto.
Il desiderio brucia, lo strema, ma
gli impone dolcezza e silenzi, pacati gesti d'amore.
Non é male che il comandante
abbia riacquistato equilibrio e normalità: i prigionieri scambiano
il suo silenzio per un ruolo normale e duro finalmente ritrovato, sono
tranquillizzati da quel comportamento come erano preoccupati dalla stranezza
di quello precedente, i soldati sorridono tra loro con aria complice, pensando
che il "matto" si è finalmente calmato, che ora si sa come comportarsi
con lui. Ma Davorin non odia più, nemmeno se stesso. E' ubriaco,
la realtà gli sfugge, i ricordi vicini sfumano e non danno più
dolore, il lupo sulle montagne è sempre più lontano.
Comincia a pensare che essere uomo
non coincida con l'essere soldato; la stella rossa sulla kapica
non è più orgoglio, ma solo travestimento e maschera di un
carnevale tragico.
Il kalashnikov non è
più il migliore dei compagni, ma un attrezzo d'antiquariato popolare,
da museo etnografico di una storia privata.
L'amore ha bisogno solo di sguardi,
di labbra rosse, di mani esili dalle dita lunghe, come quelle di Laila.
Ma non basta, non è ancora l' amore che lei potrebbe accettare,
eppure, una notte lei stende una mano verso di lui e stringe la sua come
una bambina, e la notte passa così.
In una notte di magia dormono nudi
e vicini, ma senza toccarsi, come in un romanzo brétone, come in
una veglia d' iniziazione. Sul loro volto si accende ogni giorno di più
la coscienza della propria forza, sanno di essere al di sopra di quelli
che stanno lì intorno, vicini, in guerra e, lontani, in "pace",
ugualmente torturati e torturatori, tutti coinvolti nel medesimo vortice
di odio e di paura.
La sera, quando nel campo ci sono solo
le guardie, Davorin fa salire Laila sulla Tam del comando, la nasconde
sul sedile posteriore ed escono dal recinto, attraversano la linea ferroviaria
prima della galleria e risalgono le mulattiere fino al costone che si affaccia
sulla stretta valle dove nasce l'Ukrina. Camminano poi tenendosi per mano,
verso il sole che tramonta dietro il Monte Prdelijca, vedono dall'alto
le case di njegotina e stanno in silenzio.
Nel cielo la scia bianca degli aerei
occidentali che assistono alla tragedia non li tocca, fa parte del paesaggio,
come i lontani rumori di esplosioni o a volte, più vicina, la breve
raffica che spegne una vita ai margini di un villaggio, dove si infittisce
il bosco.
Sono seduti vicini, su una roccia che
affiora: "mio padre diceva che queste rocce sono le ossa della terra"."
"Ti si moja prevrat". Le stringo
la mano, e vorrei baciarla, ma so che non è possibile, che sarebbe,
ancora, violenza.
Fa ancora freddo, la sera su questa
nostra montagna dove ormai veniamo ogni volta che possiamo, e anche le
nostre mani sono fredde. A volte stiamo seduti a guardare la valle, a volte
camminiamo per i sentieri, dietro le rocce e gli alberi radi, a macchie.
Lei è divenuta, nei suoi silenzi,
la mia guida, è lei che mi conduce per mano, in questa mia follia,
verso cose che non avevo mai visto, a sentire suoni che non avevo mai udito.
Il kozodoj sgrana il suo verso nel crepuscolo e lei si ferma per
ascoltare; da una macchia fugge battendo forte il terreno con gli zoccoli
un capriolo e lei mi trattiene, non dice nulla, ma io capisco che devo
fermarmi, ascoltare, sentire la vita che è fuori di me.
Le sfioro i capelli con le dita, ma
lei guarda ancora la bustina che ho infilato nel cinturone, con quella
stella rossa.
Davorin è divenuto estraneo
a se stesso, non ha più patria, né ideologia. Quella donna,
che gli è ancora sconosciuta, ma che conosce perfettamente, che
gli è tanto vicina da essere una parte di lui, ma che è così
lontana da tutto, perduta nel tempo, nel proprio tempo, nel sole e nel
tramonto, nel linguaggio delle nuvole e nei rumori del bosco, lo ha staccato
da tutto.
Il lupo non ulula più, né
il bambino piange per lui, tutto quello che sta succedendo intorno a loro
non li tocca più, è come una recita maldestra ed egli si
sente ormai uno spettatore, estraneo e distaccato.
"Viene un tempo -gli dice Laila- in
cui qualcuno ci segna la strada e ci permette di lasciare la vecchia pelle
di serpente che avevamo indossato per vivere, per la paura di non sopravvivere,
e da allora procediamo nudi, senza peccato, in un giardino di frutti di
loto, dimenticando il passato e le paure che porta con sé."
A volte mi viene da pensare che siano
gli effetti della sua educazione mussulmana, che siano le follie di sufi
e dervisci, poi capisco che non è altro che la verità: quella
che io cercavo nell' amore della patria, nella giustizia, nel dovere, nel
servizio.
E' questa invece la verità,
la sapienza, la Santa Sofia degli Ortodossi neoplatonici. Ora so, - lei
me lo ha insegnato senza parole -, che io sono orao e jastreb,
nuvola e pioggia, e ogni cosa sono e non sono. Non so come me l'abbia insegnato,
forse guidando il mio desiderio di lei a diventare quello che lei è,
e così il mio desiderio della sua bocca è diventato il suo
desiderio della mia, quando sono diventato come lei, quando sono stato
lei.
Laila ha capito che Davorin non è
più "il comandante", che non sono più né serbo né
soldato, che non sono più schiavo di nessuno, neanche del mio stesso
desiderio di lei.
E' stato così che, al tramonto,
sopra Gornja negotina, lei che è sempre stata la più libera,
la più forte, mi ha sentito libero e forte come se stessa e ha deciso
di essere me e che io fossi lei, ha deciso che io la meritavo: mi ha accarezzato
le labbra con le sue dita fredde.
Il suo viso, nel crepuscolo senza ombre,
era solo luce, e mi ha baciato con determinazione, con dolcezza, e dopo
l'amore è caduta su di me ed è ridiventata bambina.
Io sono pazzo, non voglio tornare al
campo, non voglio uccidere nessuno, vorrei restare sempre qui, ma non c'è
scampo: mi hanno insegnato a valutare la situazione, prima di tutto. E
mi sento prigioniero proprio ora che sono libero, forte, perché
non voglio la guerra, rinnego i miei compagni di lotta, la mia Serbia,
il socialismo, il mio dovere. Per chilometri di montagne attorno a noi
c'è solo violenza, strade minate, odio, ma ce ne andremo lo stesso.
Siamo tornati al campo e stanotte siamo
stati svegli, seduti sulle brande, a parlare. Domani fuggiremo, ma non
sappiamo dove: la guerra ha uno strano effetto: ci ha isolati, ci ha resi
ignoranti di tutto se non di quello che ci può attendere nei prossimi
cinque minuti, dietro la prima curva di una strada. E ora invece dobbiamo
pensare a qualcosa di lontano, nello spazio e nel tempo, ed è una
dimensione nuova e strana, che non padroneggiamo più da troppo tempo.
Andremo via con la Tam, verso Tezanj, poi cercheremo di raggiungere Tuzla.
Dovrò forse andare dai miei nemici.
Non sono miei nemici.
Io amo Laila, i suoi occhi come i suoi
pensieri, la sua bocca come la sua pronuncia, il suo corpo, tutto, come
la sua gente.
Al momento di salire in macchina Laila
si staglia contro il sole, i suoi capelli sono una cupola di mosaico bizantina
che brilla come un'aureola, come Santa Sofia di Costantinopoli divenuta
moschea a Istambùl. E comprende le parole delle nuvole, e sa parlare
ma non ne ha bisogno, e mi ha fatto essere ciò che non speravo,
che non conoscevo.
Stasera saremo sulla strada dove il
sole, tramontando, sorge.
Uguali, come devono essere due amanti,
senza emozioni di amore o di odio, senza corpo, senza confusioni, perduti
nel sole.