LA RETE
Ciò in cui sono tessuti il cielo,
la terra e lo spazio intermedio,
la mente assieme a tutti i sensi,
quest'unica anima è quello
che si deve conoscere.
Mundaka Upanishad II, III, 5
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«Scende anche lei a Sofia?».
Il treno stava già rallentando per entrare in stazione. La donna alla quale stavo parlando era salita a Bucarest.
In tutte quelle ore io ero stato immerso nella lettura del libro che avevo portato con me da Budapest, acquistato in una piccola libreria antiquaria della Utca Rottenbiller. Ero stato attratto dal titolo, che prometteva paesaggi orientali e storie impossibili: Tales of an Indian voyager; l'autore, J.M. Later, mi era sconosciuto.
A tratti avevo interrotto la lettura per guardare il paesaggio dal finestrino, e da Bucarest in poi per osservare quella donna, che viaggiava senza bagagli, portava degli occhiali scuri come fossero una veletta del primo Novecento, e un abito viola di seta, semplice e disadorno. L'unico ornamento era uno strano gioiello d'argento, appeso ad una sottile catenina; recava una figura a sbalzo, dalla testa di leone e dal corpo femminile, sull'altro lato una corniola ovale. L'antichità dell'oggetto contrastava stranamente con gli occhiali da sole, con l'abito, con l'agilità compressa e nervosa che affiorava da un corpo perfettamente rilassato e ammorbidito dalla consistenza soffice del crêpe de Chine.
La prima volta in cui mi aveva sorpreso a guardarla, avevo spostato il mio sguardo dai suoi occhi al gioiello, senza tuttavia riuscire a ingannarla, e lei sorridendo aveva iniziato a parlare, con una sicurezza lievemente ironica, che mi aveva sorpreso:
«è indiano, antico, penso, ma non so esattamente cosa rappresenti, né ciò mi interessa particolarmente. Le piace?»
Un po' sorpreso da quel discorso così vago eppure diretto, da quella pacata disinvoltura, avevo esitato un po' a rispondere. Mi inquietava il suo sguardo, che era fisso su di me; i suoi occhi, che per primi mi avevano attratto, erano chiari, quasi fissi, definiti dalla linea delle ciglia scure. Nel sorriso con cui attendeva, quasi divertita, la mia risposta esitante, le sue labbra schiudevano denti particolarmente bianchi, e lucidi.
«Sì, molto.»
Era la risposta balbettante di uno studente adolescente sorpreso in un momento di disattenzione, mentre pensa ad altro.
Ma l'imbarazzo era stato subito eliminato dal suo proseguire:
«Amo le cose antiche, ma non quando sono troppe, o affastellate, ammucchiate, allineate, come nei musei o nei negozi degli antiquari. Mi piace vederle isolate nella loro bellezza, e solo allora riesco ad apprezzarle, e le sento vivere ancora. Spesso regalo ai miei amici oggetti che ho tenuto per lungo tempo, anche molto belli, e ai quali rischio di affezionarmi troppo: lo faccio per poterli sostituire con qualche pezzo nuovo che di tanto in tanto acquisto perché ha attratto la mia attenzione in una vetrina o in una bottega, e mi sembra che richieda di esser tolto da lì, di essere isolato, appunto, per poter vivere pienamente (o rivivere piuttosto), per essere apprezzato nella sua forma senza doverla confondere con altre cose, di minor gusto, meno antiche, meno belle.»
Si comportava e parlava come non fosse sola con me in quello scompartimento, come se qualcuno, forse assente, la proteggesse e la garantisse da qualsiasi minaccia, infondendole la sicurezza che nasce dall'appartenenza, dal possesso e dalla tutela che ne derivano.
La ascoltavo, incantato dal tono della sua voce, dall'espressione seria ma insieme divertita, un po' ironica anche verso se stessa, dalla ardita compostezza con cui si rivolgeva ad uno sconosciuto.
«Se lei è interessato alle cose d'Oriente (evidentemente aveva notato il titolo del libro che stavo leggendo), non può che amare le cose antiche».
Il mio imbarazzo cominciava a sciogliersi, avrei potuto parlare di me e del mio interesse per i libri antichi, per i gioielli, ma preferivo parlasse lei perché ascoltandola potevo godere della sua voce, della luminosità del suo sguardo, del nero delle sue pupille, dei lievi movimenti della sua bocca: tutta la mia attenzione era attratta dal volto, che sembrava riassumere in sé il corpo, così che non mi era necessario osservarlo per vederlo.
Guardandola negli occhi mentre parlava coglievo contemporaneamente la curva delle sue spalle, dritte come quelle di chi nuota, i fianchi alti, le mani sottili e l'equivoco delle ginocchia accavallate.
Mi dicevo che l'aria sembrava disporsi intorno a lei, come se non fosse lei stessa a muoversi, ma ciò che la circondava, e secondo i suoi desideri.
Mi decisi tuttavia a parlare:
«Sono anch'io un collezionista, di libri, di gioielli che però non ho a chi donare, - risposi - di molti oggetti diversi ed anche antichi; ma non sono capace di rinunciare ad alcuno di essi, e nella mia casa essi si raccolgono, come dice lei, si sovrappongono, si oscurano a vicenda, come, nella memoria, gli avvenimenti, i volti, o le emozioni. Allora devo andarmene periodicamente (e queste fughe sono in realtà i miei viaggi), per ritrovarmi senza oggetti, senza proprietà, senza ricordi, e per poterne così cercare di nuovi, sempre più ardui, intriganti e forse pericolosi. Essi allora risplendono per un po' nella loro novità, isolati come i suoi: poi, ad ogni ritorno, li condanno alla coabitazione con gli altri e così li dimentico, ed essi giacciono svalutati, stratificati e inutili, soltanto sottratti ad ogni piacere che non sia il mio.
Ora sto andando a trovare un amico che non vedo da tempo e che mi ha promesso un giro dagli antiquari: come vede abbiamo un interesse comune.»
«Io non scendo a Sofia, - mi rispose infine - vado a Salonicco, dove abito.
In ogni caso le consiglio - proseguì dopo un attimo di silenzio e uno sguardo - di visitare un negozio d'antiquariato che conosco, in via Rakovski 22, forse il miglior negozio di questa parte d'Europa. Anzi, se lo desidera, può dire che glie ne ha parlato Rada Politídi: il Signor Penkov, l'antiquario, è un po' scontroso, quasi diffidente, e sembra soffrire quando vende qualcosa ad un cliente, ma lo conosco da molti anni ormai...»
E sorrise appena, quasi soltanto a se stessa.
Ancora una volta impacciato, imbarazzato per non essere stato il primo a farlo, mi presentai, e pronunciai avventatamente il mio vero nome. Non stavo andando a trovare un amico.
Il mio interesse per le cose antiche era peraltro vero, come quel nome, che mi ero lasciato sfuggire, ma non le dissi di essere un tormentato collezionista, più che di oggetti, di emozioni, e di azioni spesso rischiose.
Scesi a Sofia, e mi feci portare all'Hotel Savastopol, che era semplice come lo volevo. Avevo davanti a me un giorno per ambientarmi, e il mattino successivo, libero da impegni, andai subito al numero 22 (ero già in via Rakovski).
Non vi era nessuna insegna, la porta e la vetrina completamente vuota erano vecchie, incorniciate di legno. Pensai che il Signor Penkov avesse cambiato sede, avesse esaurito la merce o cessato la sua attività, ma dalla porta socchiusa filtrava una musica di flauto: «Syrinx!», mi dissi, ed entrai. Per due volte l'antico campanello, urtato dall'anta, tintinnò a lungo, sempre più debole.
Anche il banco di legno era completamente sgombro: in un angolo erano una poltrona e un divano. Si aprì la porta del retrobottega, la musica risuonò più forte e vidi venirmi incontro un uomo alto, un po' stempiato, con baffi grigi e i lineamenti squadrati, più baltici che balcanici; i suoi occhi erano chiari, ma non azzurri.
Gli chiesi se fosse lui il signor Penkov, l'antiquario: mi rispose soltanto con un sorriso, che presi per una conferma, ma che aveva una inspiegabile sfumatura di compatimento e d'ironia. Gli dissi il mio nome, non quello vero questa volta, perché l'errore commesso in treno aveva ferito troppo il mio orgoglio, incrinando la mia sicurezza. La risposta fu un altro sorriso, del tutto simile al primo.
«Non vorrei essermi sbagliato - gli dissi ancora - ma vengo da lei su indicazione di una persona che ho conosciuto in treno, giungendo qui: la Signora Rada...»
Mi interruppe, come volesse impedirmi di proseguire:
«Lei non si sbaglia: se cerca cose di pregio, - per chi sa apprezzarle, le più belle che si possano trovare in tutta l'Europa orientale - (e sorrise ancora, ma questa volta con complicità), questo è l'indirizzo giusto.»
Leggermente offeso da quella premessa condizionale, e un po' inquieto, mi guardai attorno, come a significare che non vedevo nessuno degli oggetti che solitamente vengono esposti dagli antiquari.
«Comprendo il suo sconcerto, - disse, esprimendosi perfettamente nella mia lingua che non è facile nemmeno per noi - ma non si preoccupi: sono in grado di fornirle quello che nessun collega, diciamo pure così, potrebbe offrire in vendita. Si accomodi.»
E mi indicò il divano, un pesante mobile dell'Ottocento, ornato al centro dello schienale da una squamosa aquila bicipite intagliata nel noce dei Rodopi.
Acconsentii, un po' esitante, e il signor Penkov sedette a gambe unite, senza appoggiare la schiena. Mi ossrvò per un attimo fissamente, ma come guardasse oltre a me, o non riuscisse a vedermi.
«Cercherò ora di descriverle alcuni oggetti, che appartenevano alla mia collezione, prima che intraprendessi questo mestiere. Non sono sempre stato infatti un antiquario, molti anni fa avevo un altro lavoro, ed ero un collezionista. Lei saprà di certo quanto sia frequente questa metamorfosi.
Amavo le cose belle, che spesso sono antiche, e le raccoglievo, le catalogavo, le disponevo in bell'ordine sui miei scaffali, le spolveravo di frequente. Tenevo anche un piccolo schedario per ricordare, di ognuna, il giorno in cui ne ero entrato in possesso, la provenienza, il valore, il prezzo che avevo pagato per ottenerla.
La collezione cresceva rapidamente, perché ero preso da quella foga che lei certo conosce, dal momento che è qui. Poi pian piano mi resi conto che quell'ordine diveniva sempre più difficile da mantenere, cominciavo a perdere qualche scheda e non riuscivo più a catalogare ogni nuovo oggetto: sugli scaffali c'era sempre meno spazio...»
Accese una sigaretta e la tenne tra le dita come un narghilè, come spesso fanno gli slavi, quasi per goderne anche al tatto, accarezzandone la forma, con la brace rivolta verso l'alto per non macchiarsi le unghie.
«Avevo sempre meno tempo per uscire in cerca di novità. Il mio collezionismo si riduceva alla catalogazione e alla manutenzione, sempre più ardue; dovetti lasciare il mio lavoro, e mi ridussi nell'impossibilità di acquistare alcunché, così mi risolsi infine, sia pure con grande dolore, a divenire un commerciante.
Cominciai a vendere quegli oggetti che per me avevano acquistato un valore ben maggiore del prezzo che avevo pagato; molti in verità non mi erano costati nulla, mi erano stati donati, e sono forse i più belli, quelli da cui mi è più doloroso staccarmi...».
La sua voce assumeva un tono sempre più basso, confidenziale, persuasivo. Io mi sentivo quasi assopire: poca luce proveniva dalla vetrina, la giornata era già di per sé buia: dalla strada avevo visto un cielo denso, di nubi basse e incombenti, calde.
Il fumo della sigaretta del signor Penkov pesava anch'esso su di noi, e mi intontiva: con una strana sensazione di sospensione sentii che proseguiva, con voce sempre più profonda:
«Ma ora mi permetta di farle vedere qualcosa di veramente eccezionale... no, stia pure seduto...».
Vidi sulla parete di fronte a noi, che prima mi era sembrata oscura e avevo ritenuto spoglia come il resto del negozio, uno stupendo ritratto di donna.
Era seduta su un canapè simile a quello stesso su cui sedevo in quel momento, e sorrideva con un espressione di dolcezza che indicava la mano di un artista di eccezionale livello...
Quella donna assomigliava stranamente, nei tratti del volto, nel colore e nella lucentezza dello sguardo, nella bocca, ma soprattutto nell'atteggiamento, alla signora del treno.
Appariva tuttavia di qualche anno più giovane, come se la sua espressione prefigurasse o contenesse in potenza quella dell'altra, come se quest'ultima fosse il compimento e la maturazione della prima.
La mia attenzione era totalmente rivolta a quel dipinto, e tutto il resto sembrava così svanire alla mia vista e quasi alla mia stessa coscienza.
Mi sembrò di essere rimasto solo nel negozio, o forse di essere assorbito all'interno del quadro: sentivo il caldo di un camino acceso alla mia destra; dalla finestra che si trovava alle spalle della donna ritratta e un po' spostata sulla destra, potevo vedere lievi ondulazioni del terreno completamente coperte di neve, sotto una linea scura di nubi che ne promettevano altra.
Mi sentivo immerso in quell'ambiente, così che non mi sembrò per nulla strano vedere le labbra della giovane incurvarsi, prendere vita, per pronunciare una breve frase, quasi la
prosecuzione di un discorso appena interrotto:
«Sarà ben difficile che tu possa andartene, con tutta questa neve che ingombra le strade, con tutta quella che ancora verrà... »
Anche se non riuscivo assolutamente a inserire quel volto, le parole e la situazione in un contesto che avesse qualche significato per me, o potesse collegarsi a qualche ricordo, mi sentivo ugualmente coinvolto, come se ciò che stava avvenendo fosse qualcosa di scontato, di atteso, la realizzazione di un destino già conosciuto e accettato con la fedeltà che sempre dovremmo al nostro futuro, quando riusciamo a intuirne gli eventi e i percorsi.
«Sei giunto inaspettatamente per me, eri ferito, solo. Ti ho accolto in questa casa senza curarmi del giudizio della gente di qui, ti ho curato, sono divenuta la tua donna, e tu vuoi andartene, lasciarmi di nuovo sola. Vuoi che io non veda più i tuoi occhi, la tua bocca, che non sia più felice al tuo sorriso, che non possa più tenerti per mano guardando il fuoco e il riflesso chiaro della neve che entra nella stanza anche quando fuori è buio, che io non mi senta più morire quando...»
E abbassò gli occhi riuscendo a sorridere nel simulare un improbabile pudore, quasi volesse prendersi gioco di sé stessa.
Non potevo ricordare di aver amato quella donna, eppure le sue parole non mi stupivano, tutto mi sembrava normale, come fosse un frammento di realtà, di una vita, forse della mia, e soltanto da quel momento in poi, probabilmente.
Ma la figura e la voce mi apparvero a un tratto offuscate, mentre ricominciavo a sentire la voce del signor Penkov e a rivedere il suo volto nella bottega sempre più scura. I suoi occhi brillavano di due piccole perle, mentre mi parlava, guardandomi fisso:
«Vedo con piacere che lei non è per nulla stupito, o impaurito. Anzi, l'emozione che traspare dai suoi atteggiamenti e dal suo volto, credo sia da riferire all'evento che lei stava vivendo un attimo fa, e a null'altro.»
Non ero in grado di rispondere perché mi sembrava di vivere su due piani diversi, in due diverse dimensioni non solo di tempo o di spazio, ma anche emotive e mentali.
La voce dell'antiquario non riusciva a staccarmi del tutto dall'intensità delle parole della fanciulla, e non avevo esatta coscienza nemmeno della mia età, perché avevo sperimentato che l'uomo al quale si era rivolta la donna del ritratto era ben più giovane di me, che il suo corpo e le sue emozioni erano ancora freschi e vividi. Ma non avevo però alcun dubbio sul fatto di essere io stesso quell'uomo.
Mi balenò il sospetto che il Signor Penkov fosse riuscito a far affiorare dalla mia memoria qualcosa che io potevo aver dimenticato, o non esser riuscito a cancellare completamente, ma sapevo con certezza di essere stato ferito una volta sola: ricordavo perfettamente tutto quello che era avvenuto prima e dopo quell'unica ferita, e naturalmente con estrema precisione, ma si trattava di situazioni e persone del tutto diverse.
Quindi anche quest'ipotesi era da scartare. Pensai per un attimo che si trattasse di ipnosi, ma sapevo di essere perfettamente in grado di riconoscerne i metodi: mi avevano insegnato ad avvertire quegli impercettibili gesti, quelle sfumature della voce e dello sguardo di chi intende sopraffarci, affinché, in qualsiasi situazione mi trovassi, potessi difendermi col rimanere desto.
Quel mio partecipare ad una situazione che mi coinvolgeva ben più di un dipinto, di un film o di un sogno, che mi si presentava con la medesima forza di una seconda realtà, tanto da offuscare e svalutare quella che io avevo pensato essere l'unica, quella in cui solo il rischio, e l'azione danno profumo alla vita, doveva però necessariamente dipendere anche da me. Non erano sufficienti la bellezza, il grande valore antiquario e l'indubitabile qualità artistica di quanto mi veniva proposto, per giustificare l'intensità dell'emozione che avevo vissuto.
E infatti immediatamente provai nostalgia per quel volto che si era offuscato quando Penkov aveva ripreso a parlare, desiderai sentire di nuovo in me la forza di un corpo giovane e di una suggestione esaltante. Mi resi conto che avevo provato un dolore molto localizzato e intenso alla coscia sinistra, un po' al di sopra del ginocchio, nello stesso momento in cui avevo posato lo sguardo sulle colline innevate.
Era un dolore molto simile a quello provocato da un colpo d'arma da fuoco, e io ero in grado di riconoscerlo; tuttavia desideravo risentire anche quello, come la voce della giovane donna quando parlava della mia bocca e del nostro amore, e la sensualità che scaturiva da essa, con un'insospettabile forza di coinvolgimento.
E riapparve, quasi a soddisfare immediatamente il mio desiderio, e continuò:
«...quando... ma perché devo parlare ancora, Costantino? Non ho intenzione di chiederti altro. Anzi non tener conto di ciò che hai udito. So di essere stata troppo aspra con te, ma ti ho già detto che ti amo, che non ti porrò più condizioni, che il mio tempo sarà quello che tu vorrai, che non ti imporrò altre attese, rinvii, desiderii inappagati, e tu non puoi non avermi creduto, non esserti accorto di quanto io ti ami.»
Sentendo queste parole riuscii improvvisamente a ricordare i fatti che avevano preceduto quel momento.
Ero arrivato in quella casa trascinando la gamba sinistra ferita da un proiettile passante: ero stato colpito mentre sfuggivo all'arresto; avevano fermato la mia macchina non molto distante dal confine con la Bulgaria, verso il quale stavo fuggendo e io mi ero buttato fuori dalla portiera sul lato opposto, dalla parte della scarpata innevata, rotolando fino a una macchia di piccoli abeti. I due poliziotti greci avevano sparato alcuni colpi di pistola, a caso, dentro a quel gruppo di alberi e, come avviene quasi sempre quando ci si nasconde soltanto alla vista, dietro un riparo ben visibile ma inconsistente, mi avevano colpito, ma non gravemente.
Ero così riuscito a raggiungere una ondulazione del terreno che mi defilava pur essendo quasi impercettibile, e avevo atteso assolutamente immobile, respirando contro la neve perché non vedessero il vapore del fiato. Avevo compreso che in quel frangente l'immobilità era l'unica possibilità di sottrarmi alla cattura, come sanno gli animali, e come, del resto, mi era stato insegnato.
Uno dei due era sceso a cercarmi e aveva gridato al suo collega di aver visto le tracce del mio sangue, ma non era riuscito a trovarmi e così ben presto, essendo privi di radio, e pensando di avermi ferito gravemente a causa dell'esasperato effetto di quel sangue sulla neve, avevano deciso di andare a chiedere rinforzi.
Avevo attraversato un torrente e mi ero portato sull'altro versante della piccola valle, percorrendo parecchia strada: ero sceso sul greto di un'altra valletta e l'avevo risalita fino a una spianata percorsa da una strada, finché ero giunto ad un gruppo di case, sperando di essere in patria, di essere riuscito ad attraversare il confine.
Avevo bussato alla porta della prima casa incontrata, perché ero ormai sfinito e non riuscivo più né a decidere cosa fosse meglio, né a desiderare veramente la salvezza, come spesso accade quando si è troppo stanchi.
Comprendevo che ogni vittoria, ogni risultato, dipendono soltanto da noi, e che ci sfuggono solo quando, per un motivo qualsiasi, siamo noi stessi a non sperare più.
Era una costruzione un po' vecchia, di uno stile abbastanza diffuso in tutta la nostra penisola, impreziosita da alcune inferriate a volute e da una torretta costituita da un'unica stanza al terzo piano, con una finestra su ognuna delle quattro pareti.
Mi aveva accolto, con naturalezza e senza esitazioni, quella giovane bionda: ma anch'io ero giovane allora, anzi lo sono ancora, perché solo poche settimane sono trascorse da allora.
Mi aveva curato, aveva lavato la ferita e i graffi dei rami spezzati nella fuga, mi aveva ospitato, con amore.
Avevo pensato di doverle spiegare perché ero in quelle condizioni e quali vicende mi avessero condotto lì, anche se lei non mi aveva chiesto nulla, neanche con lo sguardo o con l'espressione del volto. Ero sicuro che non lo avrebbe mai fatto, che non sarebbe mai stata lei ad affrontare l'argomento.
Ma il giorno dopo, mentre toglieva con delicatezza una garza dalla ferita sopra il ginocchio, e io guardavo i suoi capelli chiari che cadevano da un lato del viso mentre si chinava su di me, cominciai a parlare:
«Sono stato rinchiuso per sei mesi in un campo di prigionia nell'isola di Tasos, sono comunista, come voi.»
Sollevò il viso guardandomi con dolcezza, con un lieve sorriso.
«Sono bulgaro, mio padre è bulgaro, ma era andato a lavorare a Kavala, che è la città di mia madre: lei era greca. Sono iscritto al KKE da qualche anno, e sono stato molto attivo nel partito, che ora è clandestino. Sei mesi fa mi hanno arrestato, mia madre è riuscita a farmi fuggire, pagando un pescatore che mi riportasse a Kavala. I miei compagni mi hanno procurato una macchina. Volevo arrivare vicino al confine, ma mi hanno fermato prima, mi hanno sparato, ora però sono in Majka Bâlgarija, la madre Bulgaria, il mio paese.»
Non avevo progetti se non politici, e a lungo termine. Non avevo fretta di raggiungere i miei parenti a Kârdzali: ero ancora un bambino quando ero stato per l'ultima volta da loro ed eravamo andati a cercare i funghi nella valle della Vârbica.
Anna viveva con una zia, erano sole in quella casa, lo zio era impiegato al Ministero del Commercio, e veniva a casa da Sofia raramente. Lei aveva venticinque anni, la mia età, gli occhi azzurri, i capelli lunghi fino alle spalle, e li portava sciolti, o a volte trattenuti da un piccolo pettine, che le cadeva sempre...
Non parlava quasi mai, rispondeva appena alle mie domande, e spesso la risposta era un sorriso, a volte un po' triste, più spesso gaio, così che le splendevano gli occhi.
La neve, fuori, illuminava le stanze anche al crepuscolo, o di notte, al riflesso della luna; spesso trascorrevo quei momenti di silenzio in una serenità che prima non conoscevo, assorto e abbandonato al balenare del fuoco nel caminetto del soggiorno o nella stufa della cucina con lo sportellino di mica bianca, dalla luminosità della neve e della luna, e guardavo quegli occhi che brillavano e mi guardavano in silenzio, riflettendo ognuno l'immagine rimpiccolita, quasi irriconoscibile, del mio volto e quella, solo presumibile, dei miei stessi occhi, all'infinito.
Con la stessa semplicità, quasi avvolta nel suo intenso silenzio interno, Anna venne da me una sera e, sul divano del salotto dove mi preparava il letto dopo cena, passammo insieme la notte, in un'atmosfera sospesa, nel riflesso della neve e in quello delle braci, finché non si spensero.
Sentivo il suo cuore battere forte quando mi donava l'anima, e mi offriva la sua bocca, che era tenera e viva, perché la baciassi proprio allora, e io uscivo impazzito dal tumulto dei nervi e del respiro in un sopore tiepido, accarezzandole i capelli, e la gola, e le spalle bianche; e baciavo i suoi occhi che mi guardavano sorridenti, nel silenzio.
Il freddo, che seguiva immediatamente e quasi d'improvviso gli ultimi bagliori delle braci, ci costringeva a coprirci del tutto con l'imbottita di piuma, e allora per gioco cercavamo di indovinare al buio le forme abbandonate e calde di ciò che poco prima così strettamente ci aveva uniti, e respiravamo il nostro fiato, come bambini che cercano la capanna, il rifugio, il luogo o il sentiero segreti, e sentivamo l'odore della nostra pelle, del nostro amore, che è lo stesso di un bimbo nel sonno, o dei nidi scoperti in una siepe, e induce il sopore, la resa, la dimenticanza...
Poi un giorno, d'improvviso non aveva più voluto avvicinarsi a me, eppure continuava a guardarmi con dolcezza, mi diceva con gli occhi quello stesso amore; io non capivo, ero stanco, teso e frastornato. Le avevo chiesto il perché dei suoi rifiuti:
«Tu vuoi togliermi ciò che ho raggiunto con fatica, è tutto troppo facile e banale: non mi meriti, non ti merito.»
Erano frasi fatte, per me scontate, letterarie: non potevo capire. E le chiedevo ancora spiegazioni, ma rispondeva:
«Non puoi capire, perché non sai sorridere, devi saper attendere, pazientare e sperare, saper entrare nelle cose e vivere in esse, in silenzio. Tu parli troppo Costantino, non sai vivere, sai solo combattere...»
Un giorno che avevo trascorso a guardare le nuvole e la neve dalla finestra del soggiorno, e avevo sorriso a un suo sorriso, sforzandomi di farlo senza quell'ombra di tristezza che lei non sopportava, mi si avvicinò decisa e mi disse:
«Vieni?»
E nel mio letto, al lume della luna, di nuovo sorrise, si strinse a me e mi disse che mi amava.
Ma io avevo ormai cominciato a dubitare del suo amore, pensavo fosse stato soltanto un equivoco, una decisione impulsiva: non potevo pensare di essere io quello che sbagliava, il diverso, colui che non la meritava, che non meritava quelle notti.
Divenni brusco, scontroso, la guardavo interrogativamente come mi dovesse sempre dire qualcosa, o io volessi ottenere una risposta; allora lei volgeva lo sguardo da un'altra parte, infastidita, e io mi disperavo perché non vedevo più i suoi occhi, e me stesso immerso e riflesso nel loro colore, quasi una sola cosa con la loro luce.
E non comprendevo che cercavo così soltanto me stesso, anche se riflesso in uno specchio altrui, che non volevo i suoi occhi, ma solo il mio riflesso impreziosito da essi.
Dopo alcuni giorni di silenzio nei quali lei aveva continuato a occuparsi di me esattamente come in quelli precedenti, quelli delle nostre notti, dei nostri sguardi nel buio e delle braci spente, le avevo detto che me ne sarei andato.
Sul momento era rimasta interdetta, quasi stupita, e io mi ero sentito vanamente padrone di me stesso e allo stesso tempo malvagio, come se essere riuscito a provocare in lei una reazione che io giudicavo normale fosse stata ad un tempo una giusta vittoria e una violenza iniqua. Poi aveva ripreso il suo atteggiamento di distacco, quella sua capacità di ricondurre all'interno di sé stessa ogni emozione che accennasse a manifestarsi e a influire su di me, che corresse il rischio di diventare coinvolgimento, sfuggendo al suo controllo. Pensavo però che era stata proprio questa sua apparente durezza a rendere tanto più dolci per me i momenti precedenti, quelli dell'abbandono, e le nostre notti.
Ma quella stessa sera, dopo cena, era venuta a sedersi vicino a me, davanti al fuoco, e aveva appoggiato la testa sulla mia spalla, aveva preso la mia mano nella sua e mi aveva pregato di restare:
«Ho capito che il mio timore di perderti è stata l'unica causa del mio silenzio, del mio rifiuto. Non era, come tu forse puoi aver pensato, l'incapacità di uscire da me stessa, la paura del coinvolgimento, del dolore per me. Non è stato altro che la paura di vedere finire qualcosa che esiste in sé, indipendentemente da quello che noi siamo. Ma comprendo ormai che possiamo essere ciò che di volta in volta vorremo, che possiamo essere vicini o lontani, che possiamo parlare o stare in silenzio, giocare sotto la coperta di piuma o pensare soltanto di farlo, guardarci riflessi l'uno negli occhi dell'altro come in un abisso, in uno specchio infinito, o non vederci per un tempo lunghissimo, infinito anch'esso: sarà sempre esattamente la stessa cosa; nessun variare di condizione, di luogo o di tempo potrà cambiare qualcosa tra noi, ormai. Siamo destinati a ritrovarci.
Io ti sento parlare anche quando taci, sento le tue palme su di me e le tue dita lente aprirsi e chiudersi come dei petali anche se non mi tocchi, sento la tua bocca e il tuo sapore anche quando non mi baci, proprio come avveniva quando non ti avevo baciato mai, e forse anche quando non ti avevo ancora incontrato. Non ti dirò più di no, perché lo direi a qualcuno che tu non sei e che io stessa non sono, che è indipendente da noi e da ciò che desideriamo, ma che - ciò non ostante - è tutto ciò che noi siamo e potremo essere.»
Ero teso, infastidito; la dolcezza di quelle parole e delle emozioni che esse risuscitavano non erano sufficienti a vincere il mio disappunto, quel senso di umiliazione che si accompagna ad ogni rifiuto esplicito o sottinteso, e che dipendeva dall'incapacità di comprendere ciò che Anna in quel momento cercava di dirmi.
Le rispondevo ripetendo parole fruste, frasi convenzionali, che io stesso riconoscevo come tali, e che mi sembravano ancora più vuote dell'incomprensibilità oscura che attribuivo alle sue:
«Non posso più sopportare che tu mi tratti come qualcosa la cui sorte dipenda da te, che tu rivendichi a te stessa la prerogativa di decidere della mia vita, di tenermi sulla corda delle tue astruse complicazioni, delle tue filosofie, dei tuoi princìpi. Io penso di dover fare altre cose, di dover seguire una strada che da qui prosegue, e non si ferma. Tu mi appari ormai come un ostacolo. Sei stata una sosta, e dolce, e di salvezza, ma mi sembra che tu ne stia approfittando, come ogni salvatore, come chiunque si attribuisca il potere di decidere i nostri pensieri e la nostra vita per averla salvata, per averci guariti, o anche soltanto per averci amati o essersi fatto amare da noi.
Ho deciso di andarmene, domani.»
Mi ero alzato dal divano nella foga delle mie parole, inquietato da quello che io stesso stavo dicendo: stando in piedi sentii alla gamba sinistra il dolore della ferita, vidi dalla finestra ancora aperta la neve, e una linea scura di nubi che stava salendo e avrebbe coperto la luna, e incurvarsi le labbra di Anna, che stava per rispondermi.
Mi ritrovavo dunque allo stesso momento in cui il "ritratto" aveva preso vita, ed era iniziata quella storia, e mi chiesi allora se quella circolarità di eventi che si stava chiudendo avesse un esito, un'uscita sul presente, o sul futuro, ma ciò mi appariva illogico, fisicamente paradossale, e così mi sentii smarrito, fortemente impaurito da un tempo a una sola dimensione, che si esauriva in se stesso, in un punto.
Pensai per un attimo che quell'istante non fosse altro che la conclusione definitiva dell'esperienza sensibile, che potesse essere il modo con cui si manifestavano, censurate e attenuate, la morte di Anna, quella di Penkov, e, di conseguenza, la mia.
Udii invece, quasi con sollievo, la voce dell'antiquario, e sussultai, ritrovandomi ancora una volta nel negozio di via Rakovski:
«Veda signor Lanáras, a questo punto io non posso permetterle di proseguire nell'esame di quanto le sto offrendo in vendita, né, come lei ha appena compreso, mi sarebbe possibile farlo, anche perché, al punto in cui ci siamo trovati non v'era più alcuna uscita sul futuro, ma soltanto su un passato, abbastanza circoscritto del resto, e che riconduceva comunque al presente, a un presente problematico, doloroso e insostenibile, coincidente con quell'attimo che si sarebbe ripetuto all'infinito in una spirale avvitata su sé stessa. Uno stallo.
Tale condizione di uscita dagli eventi, di fine della storia, sarebbe forse accettabile - ma non è detto - se il momento che in questo modo si fa eterno fosse di gioia, o di sfrenato piacere, ma sono rari, come lei sa, e comunque è sempre a chi li vive che spetta una simile decisione, non mai a chi li fa vivere ad altri, anche se spesso presume di averne il diritto...»
Lo guardai con un'espressione interrogativa, stupita, ma subito mi resi conto di quanto egli poi, pacatamente e sommessamente, con quel lieve sorriso che accompagnava sempre le sue parole, volle ugualmente spiegarmi.
«Lei si sarà certamente reso conto ormai che, quando le ho parlato della mia collezione, delle difficoltà che essa comportava, della mia decisione di divenire antiquario per poterla tenere in ordine, per liberare gli scaffali, mi riferivo ai miei ricordi, agli avvenimenti della mia vita e al tipo di emozioni, diverse, che essi producevano in me e avrebbero potuto produrre nei miei clienti. Ma devo ora confessarle che ero mosso anche dalla segreta speranza di poter riprendere prima o poi ad essere un collezionista, e acquistare qualcosa di unico, nuovo e diverso da tutto ciò che il tempo e l'obbligo della manutenzione avevano trasformato in un pesante dovere anziché nel piacere che inizialmente mi aveva donato.
È per questo motivo che non posso esitarle i momenti immediatamente successivi ai fatti che lo proposto poco fa: essi sono già stati alienati, ma mi sono permesso tuttavia di conservarne un breve sommario scritto, affinché non svanissero completamente dalle mie possibilità di ricordare. Se lei desidera potrò riassumerli per lei, ma non mi è possibile offrirli in vendita, cosicché lei purtroppo non potrà mai entrarne in pieno possesso, cioè viverli e inserirli nella sua esperienza e nella sua memoria, come è avvenuto invece per ciò che ha visto fin qui.
Le assicuro però che sono disponibili altri momenti successivi, altrettanto belli, e forse più ancora, e che lei certamente apprezzerà in maniera particolare, dal momento che ha potuto conoscere la Signora Politídi...
Lei però sa anche, certamente, che ogni antiquario, specie se colto (so che non sono molti, ma io presumo di esserlo), specie se è stato un collezionista e conosce quindi il valore intrinseco, qualitativo e non monetizzabile dei pezzi che cede, valore che coincide con la loro bellezza, soffre ad ogni affare concluso, ad ogni transazione. Ciò avviene inevitabilmente anche nel mio caso, nonostante si sia trattato, come le ho detto, di una scelta, e io, con un po' di ipocrisia, la prospetti invece come una necessità. E avviene quindi anche se io mi privo volutamente di questi ricordi e di queste emozioni.
Per quel che riguarda ancora la particolare qualità della mia merce (mi permetta un breve inciso prima che io prosegua nell'illustrarle le modalità che mi sono imposto nello svolgimento di questo commercio), lei non può avere un'idea precisa di quanto successo io abbia avuto fin dall'inizio di questa attività: ho servito artisti, musicisti famosi in tutto il mondo (ma non mi chieda chi siano stati), gente comune, piccoli impiegati o miseri insegnanti, aristocratici che non avevano perduto, assieme ai denari, l'estenuata sensibilità estetizzante dei loro geni sfibrati, borghesi non inclini al guadagno o alle mode (posso assicurarle che, per quanto possa apparire strano, ve ne sono). Persone di ogni tipo che svolgono le proprie vite su fili apparentemente esili e monotoni, ma che vivono nascostamente, da sole o con pochi e segreti compagni, nei fastosi palazzi di una sensibilità straordinaria, arredati con le più raffinate creazioni di fantasie incontenibili e di intelligenze mobilissime, nate per sedurre e per trasformare, partecipi di sensazioni squisite, di emozioni turbinose e di eventi eccezionali, incomparabili a quelli dei più noti personaggi dell'arte, o della storia stessa.
Posso quindi affermare di essere il fornitore esclusivo di un'aristocrazia travisata ed occulta, che agisce in contumacia della società e della storia, dei miti e delle mode, perfettamente libera, e dotata di un potere inimmaginabile e apparentemente inutilizzato.
Ciò che io offro, anche a causa di quell'ipocrisia di cui le ho parlato, e che mi fa spacciare per necessità una mia precisa e libera scelta, non è quindi in vendita secondo quanto comunemente si intende con questa espressione: io infatti cedo ai miei clienti in assoluta e incondizionata proprietà e del tutto gratuitamente (quasi per un antico dovere di onestà) i pezzi che compongono la mia vita, la mia collezione. L'unica condizione che espressamente pongo è quella dell'irreversibilità dell'atto, nel timore di potermi pentire un giorno, e, dover pagare chissà quale altissimo prezzo per rientrare in possesso di ciò che non è più mio.
Mi sono imposto questa forma particolare di contratto di vendita poco dopo aver iniziato l'attività di antiquario: avevo ceduto un bel ricordo, legato a profonde emozioni ideali di carattere prevalentemente politico, al giovane figlio ribelle di un ricchissimo borghese, legato alle forniture statali di materiali per la difesa.
Dopo qualche tempo avevo cominciato a provare una strana sensazione di inquietudine e di privazione, accompagnata da spiacevoli malesseri e da fobie. Tale situazione si ripete del resto puntualmente anche oggi, ad ogni vendita, ma ormai vi sono abituato. Essa, in quella prima occasione, mi aveva turbato profondamente anche se, avendo venduto il ricordo, non potevo sapere di cosa precisamente si trattasse: anzi, ciò contribuiva a farmi presumere di aver rinunciato per eccessiva superficialità a qualcosa di essenziale, di cui non potevo fare a meno, e accresceva la mia ansia.
Riuscii a ritrovare infine il giovane acquirente, ma essendo io quasi privo di mezzi, e non intendendo egli restituirmi quella che pensavo essere una parte importante di me stesso, nonostante gliel'avessi ceduta a titolo gratuito, dovetti proporgli un disgustoso baratto, e gli diedi in cambio un dolcissimo ricordo d'infanzia. Rientrato in possesso delle mie antiche emozioni ideologiche, ne riconobbi la pesantezza, la sostanziale inutilità, l'eccesso di spazio che occupavano nella mia memoria in relazione al loro effettivo valore a alla loro reale concretezza, e compresi perché quel giovane borghese, ancorché ribelle, me le avesse così facilmente restituite, concludendo per di più un vero affare, con quei ricordi di un'infanzia felice che la classe cui apparteneva il padre gli aveva invece fatto mancare.
Da allora introdussi nel contratto la clausola dell'irreversibilità.
Per ritornare a noi, devo chiederle se ciò che le ho proposto è di suo gradimento, se è pertanto disposto a divenire l'unico proprietario di quanto ha visto, di quanto ha vissuto, sì da inserirlo nella sua stessa vita, nella sua memoria, libero di disporne a suo piacimento, senza alcun esborso in denaro, ma con la clausola cui le ho fatto cenno, che per me è imprescindibile...»
Stavo per rispondere affermativamente, felice di poter entrare in possesso, a condizioni così favorevoli, gratuitamente, di un oggetto così bello, così simile a ciò che io da anni affannosamente e rischiosamente collezionavo, e contemporaneamente così nuovo per me, ed inusitato; ma l'antiquario proseguì:
«Non voglio però che tra questi fatti e gli altri che intendo in seguito proporre alla sua attenzione e alla sua emozione vi sia uno stacco che potrebbe impedirle di cogliere la sostanziale unità che li collega, e desidero inoltre farla uscire da quello stallo temporale nel quale lei si è trovato costretto poco fa. Pertanto, come le ho promesso, e basandomi sugli appunti che forse fraudolentemente ho preso per poter almeno riassumere ciò che ho già ceduto ad altri, le dirò come mi risolsi ad accogliere le preghiere di Anna, e decisi di non lasciarla, come avevo deciso nella mia inconsapevole irritazione.
Ci recammo insieme a Sofia, presso lo zio in un primo tempo, poi, quando decidemmo di sposarci, ottenni un piccolo appartamento in via Karadza e la zia si trasferì anch'essa nella capitale. La casa con la torretta, la villetta Liberty di Godeovo, dove ci eravamo incontrati ed era iniziato il nostro amore, restò chiusa, poi ne rientrò in possesso una antica famiglia macedone, cui era appartenuta in precedenza. Ciononostante la sorte mi ha condotto a poterla rivedere ancora, anzi ad acquistare il divano sul quale lei siede ora e che appartiene anche al suo passato, ormai.
Mi iscrissi al partito e intrapresi anch'io la carriera ministeriale, alla quale mi aveva indirizzato lo zio di Anna: i miei studi di Economia mi favorirono e fui impiegato nel settore del Commercio con l'Estero; ciò mi consentiva di viaggiare per servizio e di soddisfare così il mio hobby di collezionista. Dovetti però assumere una diversa identità, ad evitare possibili disguidi con la polizia greca o con altri paesi della Nato. Ad un certo punto però, dopo la caduta dei colonnelli ed un notevole miglioramento dei rapporti tra quel paese e il mio, ebbi la possibilità di recarmi spesso a Kavala o a Salonicco, sia per servizio che per diporto, per trovare i miei vecchi amici, i miei compagni di fede, e riallacciare con loro quegli inscindibili legami ideologici e amichevoli, privati e contemporaneamente legati alla politica, e - poi - anche al mio impiego, che al tempo della mia fuga erano stati bruscamente interrotti.
I rapporti con Anna erano dolci, se ben ricordo (lei capirà, ormai non ho altro che degli appunti). La nostra vita era l'immutabile prosecuzione di quelle sere, di quei riflessi, del nostro primo amore.
Almeno io credo fosse così, ma non ne sono sicuro, né posso ricordare i particolari: questo periodo, un po' torbido ed estenuante, ma fortemente caratterizzato dalla nostra età e dalla passione intensissima che ci univa, l'ho ceduto a un anziano collezionista di Birmingham, specializzato in oggetti a sfondo erotico ma incapace di ricordare, forse a causa di sensi di colpa infantili rinfocolati dalla senescenza, i propri appassionati errori e amori, ormai troppo lontani nel tempo.
I miei viaggi si facevano sempre più frequenti, e ad essi dovrebbero corrispondere ricordi di altri fatti che, credo, avevano reso la mia vita intensa e colma di emozioni non solo negli avvenimenti e nell'esperienza d'amore ma anche per altri aspetti, che io ora fortunatamente non posso ricordare, anche perché ho la netta impressione che ciò costituirebbe un pericolo, per me e forse anche per lei...
Li cedetti un po' malvolentieri ad un giovane impiegato che aveva preso il mio posto al Ministero quando mi ero ritirato, ma si trattava di sensazioni così forti che riesco ancora a coglierne almeno l'elemento che le caratterizzava, ed era il loro profumo, quello del rischio, che dà senso alla vita, ad ogni vita.
Anna aveva ripreso pian piano il suo atteggiamento di contestazione e di critica nei confronti dei miei comportamenti, del mio impegno politico che lei non aveva mai condiviso, delle circostanze e delle azioni che mi coinvolgevano e che lei considerava manifestazioni di immaturità.
In occasione di uno dei miei frequenti viaggi in Grecia - nel suo paese - dottor Lanáras, conobbi una donna che assomigliava in maniera impressionante ad Anna, ma possedeva una sicurezza interiore, una tale padronanza delle emozioni e degli avvenimenti, e la capacità di gestire la realtà al di là di ogni immaginabile limite, quasi ai confini della magia, che io ne fui attratto irrimediabilmente e fatalmente.
Finii per separarmi da mia moglie, che fu ben felice di tornare a vivere con la zia e con i suoi princìpi, i suoi timori. Ero convinto che lei avesse bisogno di qualcuno da curare, o da guidare, per poter così esercitare una qualsiasi forma di autorità: concepiva l'amore soltanto come una perpetua lotta per la supremazia, in un modo che io non sapevo se definire infantile o animale.
Si concluse così un periodo della mia vita, ed esso è stato ormai completamente alienato: come già le ho detto, sono riuscito a liberarmene del tutto. Vendetti al vecchio di Birmingham infatti il periodo più intenso dal punto di vista erotico, mentre quello successivo, caratterizzato dall'intensificarsi dell'atteggiamento materno, o piuttosto caritatevole di Anna, ebbi occasione di cederlo, per una strana coincidenza, ad un nostro comune amico per il quale lei aveva sempre dimostrato una spiccata simpatia, e che, come seppi poi, era affetto da una funesta malattia, per cui ebbe ben poco tempo per godersi ciò che aveva acquistato da me.
Conobbi l'altra donna a Salonicco, dove mi ero recato a trattare una partita di zolfo per conto del Ministero dell'Agricoltura e per visitare la Fiera.
Avevo lasciato Sofia dopo un definitivo litigio con Anna, e godevo, anche se ancora inquieto, di un settembre caldo, a volte rinfrescato dalla brezza di terra, altre fastidioso per l'umidità della regione e di quella città in particolare.
Mi sentivo libero, ero soddisfatto della mia attività e di essere riuscito a stabilire contatti con alcuni uomini d'affari greci che avrebbero potuto essere molto utili al mio lavoro e al mio paese.
In qualche momento libero passeggiavo per le viuzze ripide, tra i vecchi edifici della città vecchia risparmiati dall'incendio, dove le angurie verde scuro erano ammucchiate agli angoli delle case e sostenute da tavole di legno, e a volte ne prendevo una fetta per dissetarmi.
Mi piaceva quella città, dove si parlava greco, turco, bulgaro e francese; una città libera e aperta, come vorrebbe la tradizione greca: una città colta. Non mi era sfuggita quella venatura particolare di intensità quasi febbrile, nevrotica, che contraddistingue i porti, le città vicine ai confini, che così vengono annullati e ridicolizzati, dove ogni forma di cultura si sviluppa naturalmente e intensamente, dove spesso i sensi contano più dei sentimenti.
Ero riuscito a farmi conoscere da un importante commerciante di filati, molto ben introdotto in ogni settore del mercato per le sue numerose amicizie e vicino al Pasok, il partito allora al governo. In un breve colloquio aveva discretamente rivelato una particolare simpatia nei confronti del mio paese e del suo sistema economico, con un breve accenno a iniziative cooperativistiche delle quali egli intendeva farsi promotore in Grecia.
Ero stato ben attento a valutare i messaggi che potevano essere contenuti in quelle parole, considerandone i possibili rischi, e avevo deciso di attendere ulteriori avance, potendo decidere da solo, in quanto godevo di fiducia da parte dei miei superiori e disponevo quindi di un notevole margine di discrezionalità.
Un pomeriggio, rientrando all'Astoria, l'albergo della Tsimiski dove alloggiavo, trovai un biglietto che mi invitava a colazione dal signor Politídis, il commerciante, nella sua villa di Aghia Trias. Era un ottima occasione: lucidai con cura le mie scarpe nere e indossai lo smoking, non infastidito da quegli abiti che un tempo avevo disprezzato...».
Anche questa volta le parole del signor Penkov stavano agendo su di me come una droga, e mi sembrò allora di essere io stesso a vivere gli avvenimenti che egli aveva iniziato a narrarmi.
La parete di fronte a me, sulla quale prima era comparsa Anna e che nel giro di pochi minuti mi aveva donato emozioni e sensazioni vivissime, condensando in un così breve intervallo fatti che, in una dimensione normale del tempo presuppongono giorni e mesi, mi riassorbì in sé.
Quel contrarsi del tempo, che era giunto addirittura a coincidere con un punto, con una storia ad una dimensione, senza altri esiti che non fossero le parole di Penkov, era favorito adesso da una mia maggiore disponibilità e dal buio quasi totale in cui ci trovavamo.
L'oscurità annullava ogni contorno, ogni geometria e definizione convenzionale dello spazio.
L'interruzione dell'evento e la voce pacata con cui egli aveva ripreso per me il controllo dei fatti, mi avevano sollevato dall'angoscia e dal timore di una ripetitività infinita, anche se per un attimo avevo pensato che mi stesse offrendo non solo i suoi ricordi, ma il segreto che può aprire la strada verso la conoscenza della verità.
La struttura bidimensionale della parete ora si prestava più facilmente ad accogliere la tridimensionalità dello spazio e il fluire di un tempo convenzionali e soggettivi, quali sono forse ogni spazio e ogni tempo, quale è ogni nostra illusoria verità.
Stavo volgendo tra me queste considerazioni, inquieto e ansioso come un adepto, ma la forza delle immagini che apparivano di fronte a me mi avvolse come sprofondassi in un sonno troppo atteso e cominciai a vivere, fui Penkov.
Mi trovai in un pessimo taxi greco, con un autista brontolone e l'antipatica scritta che invita a chiudere piano le portiere; sul lunotto posteriore vi era un adesivo, altrettanto irritante, che rivendicava alla Grecia la Macedonia del Nord; mi nauseava anche, letteralmente, quel modo irresponsabile di guidare sull'ultimo tratto di strada che correva abbastanza vicino alla costa.
Giungemmo a una villa che sembrava l'immagine del cattivo gusto, un'assurda mescolanza di neoclassicismo e funzionalismo, ma fui felice di scendere e respirare la brezza di mare che rinfrescava una giornata un po' troppo calda. Fui accolto dal mio ospite, che mi presentò ai suoi amici, tra i quali vi era un ministro del governo in carica. Lo avevo già notato ad un'asta di antiquariato, qualche anno prima, a Londra. Mentre stavamo sfiorando argomenti poco impegnativi (si era all'aperitivo e ci trovavamo sulla terrazza da cui si vedeva il golfo), si avvicinò a noi una donna di eccezionale bellezza, ma quello che soprattutto colpì anche me fu la sua straordinaria somiglianza con Anna.
Il signor Politídis mi presentò:
«Il signor Penkov, della missione commerciale bulgara; mia moglie Rada».
Vivevo ormai, contemporaneamente, tempi diversi, che a tratti coincidevano: il mio passato, quello del signor Penkov, il mio presente, forse anche il mio futuro, che mi balenava però solo come intuizione e che, con un inspiegabile sensazione di timore, presentivo legato a quello dell'antiquario.
Riconobbi la donna del treno, ma non potevo separarla da Anna, anche per la forza delle emozioni che mi avevano poco prima coinvolto. Siccome esse erano prive dello squallido seguito che mi era stato semplicemente riassunto, era rimasto intatto l'entusiasmo che prima si era impadronito di me: il mio amore per Anna non aveva subito delusioni o stanchezze, pertanto, contrariamente all'antiquario, non vedevo questa sua nuova manifestazione come un essere diverso, ma con immediatezza e senza disagio coglievo l'assoluta identità delle due donne e la continuità che al primo proprietario di questi ricordi era erroneamente sfuggita a causa della separazione e della delusione, presenti solo nella sua esperienza.
Mi rendevo chiaramente conto che per me Rada Politídi non era altri che Anna, e il desiderio di lei che avevo provato già quando mi ero perduto nei suoi occhi, dopo la stazione di Bucarest, non era qualcosa di nuovo, ma solo la nostalgia di un corpo già noto, ora incarnato in un'altra mente e in una diversa sembianza. Si trattava quindi del medesimo destino che allora avevo riconosciuto come mio e che avevo accettato.
Indossava un abito di seta nera, accollato, adornato solo dal colore dei suoi capelli biondi, che scendono a sfiorare le spalle; all'anulare uno zaffiro minuscolo, montato in argento, riprendeva il colore dei suoi occhi e attirava lo sguardo sulle sue mani che hanno il palmo stretto e le dita magre, e agili.
Mi sentivo impacciato nello smoking, ma la sicurezza con cui parlavo la loro lingua mi faceva sentire ugualmente a mio agio, quasi fossi stato uno di loro...
Mi sorrise con quella lieve ironia senza motivo che avevo già notato in treno e mi presentò gli altri ospiti, mi offrì un'altra flûte di Pommery, che loro usavano come unico aperitivo, ed io acconsentii con allegria, tutto preso da lei. Il primo bicchiere, che mi era stato offerto da suo marito, lo avevo invece accettato con serietà quasi compunta, professionale. Mi pose qualche domanda banale, di circostanza, sul mio soggiorno a Salonicco, sulle mie impressioni a proposito della Grecia e scherzò pacatamente sulla grecità del mio nome di battesimo e sulla concordanza toponomastica e storica tra esso e il cognome di suo marito.
Ci fermammo certamente a parlare tra noi più del dovuto, anche se di cose assolutamente futili, quasi fossimo disposti ad accettarle per prolungare il piacere di parlarci perdendoci negli occhi dell'altro, come era successo fin dal primo momento. Ero di poco più alto di lei, e ci studiavamo, parlando, ma non come avversari, piuttosto come congiurati che non sanno ancora se fidarsi l'uno dell'altro.
«Amo questo luogo - disse - solo per questo strano golfo su cui il sole tramonta nel mare. Il mare è il soggetto più antico della poesia; lo vedo rosso acceso, e poi più scuro all'ultima fine del tramonto, colore del vino, proprio come lo definisce Omero.»
Trovai così il coraggio di chiederle se anche lei scrivesse poesie.
«Perché dovrei negarlo? - rispose, decisa e quasi con sfida, come volesse finalmente smetterla con le banalità cui fino ad allora ci eravamo limitati - Ma non sono pubbliche né intendo pubblicarle, sarebbe come offrire me stessa in pasto a chiunque, e i lettori sono spesso insaziabili e sacrileghi divoratori di ostie. Mi sentirei sbranata, sezionata. Alcuni ritengono si tratti di timore del giudizio altrui sull'effettivo valore di quello che scrivo, di elusione del confronto. Io credo invece che rischierei di donare qualcosa che io ritengo bello e segreto a chiunque, anche a chi non lo merita e non potrebbe mai capire... arcana publicata vilescunt...»
Si volse per un attimo verso il gruppo degli ospiti che circondavano suo marito ma si rigirò sùbito, poi riprese a guardarmi negli occhi, ma senza volgarità, o provocazione.
«Ritengo al contrario giusto che sia io a decidere a chi offrire me stessa, anche se questo atteggiamento potrebbe essere definito aristocratico. Del resto...»
E ancora sorrise come per riferirsi a qualcosa che io dovessi naturalmente conoscere o sapere, ma io non potevo ancora capire...
Mi guardava intensamente, ma come fosse stato impossibile fare altrimenti, come fosse quello il suo modo, l'unico appropriato.
«Ogni poesia, ogni piccolo brano di prosa che scriviamo è sempre un'autobiografia, ed è sempre una storia d'amore, anche se solo desiderata, o sognata. Lei sa del resto che non c'è differenza. Al contrario la strada verso il compimento va dalla realtà al sogno, da questo al sonno e alla fusione di queste tre condizioni in un'identità trinitaria: essa è la vera realtà. In ogni caso pubblicare queste cose potrebbe, a volte, essere pericoloso... Lei ama la poesia?»
Non avevo mai scritto nulla, ma più volte avevo pensato che il mio modo di propormi alla vita e alle azioni che essa esige, che il profumo di alcuni particolari aspetti del mio impiego, specie quando ero solo, o all'estero, fossero indubitabilmente poesia, e glielo dissi, censurando e sottacendo solo l'ultima parte di quel mio ragionamento. Mi guardò un po' incuriosita e un po' impaurita, come avesse compreso anche quello che io non avevo detto.
A questo punto avvertii la sostanziale coincidenza tra ciò che avevo pensato e soltanto in parte dichiarato di me stesso, e quanto mi aveva raccontato Penkov a proposito dei suoi viaggi all'estero e dei pericolosi ricordi ceduti al giovane impiegato che l'aveva sostituito: era poi la stessa cosa che io avevo detto in treno alla donna che solo ora vedevo per la prima volta, in una sequenza temporale sconvolta, nella quale il passato precedeva il presente.
Ciò mi portò a comprendere che non solo Anna e Rada, quella del treno e questa di Salonicco erano la stessa persona, ma sospettai che anch'io e Penkov fossimo sostanzialmente coincidenti e contemporaneamente distinti. Considerai peraltro che questo stesso discorso poteva essere applicato a chiunque, che vivere non fosse altro che rendersi conto e quindi realizzare tale assunto. Ma il pensiero svanì immediatamente, come quei lampi d'intuizione che spesso ci illudono di aver colto una faccia del vero, e ci entusiasmano dolcemente, ma subito sfumano, sviliti dalla quotidianità, dall'affievolirsi delle percezioni e dall'invasività del pensiero banale.
Era difficile nasconderle qualcosa: anzi sembrava che lei desse per scontato, stando agli atteggiamenti che assumeva e alla schiettezza con cui si esprimeva, che le nostre parole fossero soltanto l'accompagnamento convenzionale e quasi superfluo di una comunicazione non assolutamente verbale, ma esclusivamente mentale, o estetica, quindi inevitabilmente palese e completamente decodificata.
Quando ci rendemmo conto che era necessario tornare nel gruppo degli ospiti, e separarci, mi disse in fretta che desiderava leggermi qualcuna delle sue poesie:
«Non tutte, forse, - sottolineò sorridendo - né le più recenti, per ora».
Questo invito, sia pure condizionato, giunto subito dopo le parole che aveva appena pronunciate, quando aveva parlato di dono e di offerta di sé, accrebbe smisuratamente l'emozione che già proveniva dal suo sguardo e dal suo aspetto, riassunti negli occhi e nell'anello, e nelle sue dita e nel ricordo di Anna e delle braci che lentamente ardevano nel caminetto e del nostro piumino giallo.
Quella sera conobbi il Ministro, che non dimostrò alcun interesse per la mia attività, ma il signor Politídis volle invece riparlarmi di quei progetti che mi aveva già anticipato nel nostro primo incontro, così che mi risolsi a invitarlo ufficialmente a visitare la Bulgaria, dove avrei avuto modo di sondare meglio le sue intenzioni, sul mio campo, e dopo aver acquisito quelle informazioni su di lui che in quel momento mi mancavano e senza le quali non era il caso di approfondire ulteriormente il discorso e il reciproco coinvolgimento.
Dopo il pranzo e una piacevole conclusione rinfrescata dall'aria del mare che profumava la terrazza, fui riaccompagnato a Salonicco da altri ospiti, cortesi ma freddi, come sanno essere i cittadini di confine con gli stranieri non sufficientemente lontani.
Dal finestrino entrava la stessa aria che aveva incensato gli ultimi sguardi e il saluto formale scambiato con la signora Politídi, e che mi ricordava una rotta segreta di alcuni anni prima, quando ero fuggito a Kavàla, sul mare.
Ma già sognavo sovrapponendo ancora quegli occhi alla pietra dell'anello, e i capelli, e il nero dell'abito e delle pupille, e le spalle quadrate, e le mani agili, come foglie chiuse e dischiuse in stagioni diverse e sovrapposte. Anna e Rada ancora una volta si confondevano; la spossatezza dell'amore appena vissuto e di quello ancora soltanto sperato, la forza estenuante del desiderio inappagato e lo stremo di quello compiuto non erano che un'unica cosa, e sempre lo sono anche se così raramente ce ne rendiamo conto. Quell'intensità del sentire induceva di nuovo tuttavia in me un tepido torpore, l'abbandono, una arrendevole spossatezza.
Appena in albergo questa fu la condizione del mio cedere al sonno, e la stessa segnò - e segna ancora - ogni mio addormentarmi, ed ogni mio risveglio.
Il mattino seguente mi resi conto che in mille volti diversi e in situazioni a volte confuse e in altre segnate da una percezione quasi violenta, gli occhi di Rada avevano determinato con la loro presenza tutti i miei sogni di quella notte.
Era l'ultimo giorno del mio soggiorno a Salonicco, e avevo ben poche cose da fare, oltre alla valigia e a una breve visita alla Fiera per alcune rapide formalità d'ufficio. Lo scirocco portava foschia che offuscava il sole, già basso sull'orizzonte di settembre, e afa. Rimasi disteso a letto, sperando che quella donna stesse pensando a me e alla promessa di rivederci: non era assolutamente il caso che fossi io a cercarla, anche perché temevo che fosse il signor Politídis a rispondere al telefono, dal momento che la Fiera era praticamente conclusa e che egli mi aveva espresso il desiderio di prendersi qualche giorno di riposo e di sole al mare prima di ritornare alla sede della Società che era ad Atene, dove normalmente si occupava dei suoi commerci e manteneva le sue relazioni d'affari.
L'impossibilità di qualsiasi iniziativa mi innervosiva, in quell'afa, e mi deludeva di me stesso, così che potei solo ricostruire, con gli occhi e la mente chiusi a qualsiasi altra sensazione, quel volto che pure mi era noto poiché coincideva con quello di Anna, e concentrare la mia attenzione su di esso. Squillò il telefono e, dopo l'incomprensibile gorgoglio del centralinista, udii la sua voce, modulata e tonale, che rendeva ancora più struggente, sia pur senza dolore o ansietà, il desiderio ormai radicato e ineludibile.
«Come sta? - e la vidi sorridere - sarei molto contenta se potessimo vederci oggi. Mio marito mi ha detto che lei parte domani e io non vorrei perdere un lettore, o aspettare chissà quanto perché lei possa avere un'altra occasione per diventarlo.»
E rise a lungo, forse per vincere l'inquietudine.
«Possiamo incontrarci oggi alle undici alla rotonda di S.Giorgio? Immagino che lei sappia... non è molto lontana dal suo albergo... non ricordavo come fossimo rimasti d'accordo per questa lectura (e usò, per la seconda volta, il Latino, che io conoscevo per aver studiato in Grecia, dove stranamente si studia quella lingua meglio del Greco antico) e mi sono quindi decisa a chiamarla.»
Risposi con una scioltezza che non mi conoscevo, data la mia disposizione a godere delle mie emozioni fino a lasciarmene sopraffare, fino a perderle.
Cercai di emulare quella lieve ironia che caratterizzava ogni sua espressione, verbale o gestuale che fosse e confermai, ripetendoli, il luogo e l'ora dell'appuntamento, contrariamente a quanto ero solito fare per antica abitudine.
La attesi per un quarto d'ora perché mi ero recato in anticipo alla Rotonda, tradendo anche in questo caso, le abitudini acquisite ormai da tempo. La maggior parte dei taxi giungeva dalla Filipou o dalla parte del mare, dalla Torre Bianca, così che io guardavo a sud; lei invece mi sopraggiunse dalla parte dell'Università e mi salutò di sorpresa, e dandomi del tu:
«Salve, Costantino!»
E pronunciò il mio nome con voce decisa, quasi provasse piacere nel farlo, e volesse farmene partecipe.
«Dove andiamo? Ti va il bar dello Yachting? Non ci vado da molto, ma mio marito è socio, possiamo anche mangiare qualcosa, ci sono i tavolini di ferro vicinissimi al mare, che a quest'ora quasi sfiora l'orlo del molo: siamo in Grecia, il mare è dappertutto!»
Accompagnava ogni frase con un sorriso, come una giovinetta entusiasta della situazione, del mare e del sole che le splendeva sui capelli, di ogni cosa nuova.
Mi lesse alcune poesie, brevi e astruse, ma caratterizzate da un'intensità emotiva del tutto controllata. Erano dense di riferimenti appena accennati a una cultura, una storia, una scienza persino, che non avevano diretto riscontro nella sua attuale condizione greca, europea o levantina, ma sembravano provenire invece dallo stesso ambito cui apparteneva il mio mondo, quello slavo, nelle sue origini più remote. E mi sembrò perciò di ritrovare qualche cosa che apparteneva anche a me, anche se la percepivo molto lontana, forse nel tempo o non soltanto in esso...
Vi era in quei versi un rifiuto della razionalità e della realtà che noi riconosciamo come tali, ma, invece dell'assenza di ordine che ciò avrebbe potuto provocare, sembrava vi fossero costanti echi a un diverso sistema di intendere le emozioni e le azioni.
Durante la lettura si interruppe per osservarmi un attimo e per chiedermi se mi stava annoiando: io guardavo la sua bocca, mentre leggeva, e mi perdevo nei suoi occhi, eppure la ascoltavo con un'attenzione forse accresciuta da quel mio perdermi in lei.
Negai, quasi umiliato, e poi, quando ebbe finito di leggere, le dissi quelle mie impressioni, quasi a conferma dell'attenzione con cui avevo seguito le sue parole.
Quelle poesie, pur nella estrema e raffinata delicatezza delle espressioni, avevano un'intensa impronta di sensualità, che tradiva una personalità profondamente immersa nella vita e in ogni attimo di piacere che da essa si potesse estrarre. Evidentemente non aveva effettuato quella scelta, quella censura che mi aveva preannunciato il giorno prima.
Quando cominciò a parlare di sé riuscii a comprendere quell'eco di lontananza e di diversità che mi aveva colpito: mi disse infatti di non essere greca, ma slava di Bosnia, e di famiglia mussulmana. Non mi spiegò però come avesse sposato un greco, e fosse di fatto divenuta greca lei stessa. Poi continuò:
«Non devi stupirti, ma è inutile che te lo dica perché credo di averti compreso, e non temo quindi il tuo giudizio, né ho mai tenuto conto nemmeno dell'opinione dei moralisti, così numerosi nell'ambiente che sono costretta a frequentare. Il loro atteggiamento è l'essenza stessa della borghesia, è il suo modo di vivere, o meglio di non vivere, è un gioco crudele, un rito satanico, contro natura.
Pochi sono invece coloro che sono riusciti a svincolarsi da sensi di colpa e ipocrisie, comprendendo che ogni virtù è la maschera del proprio opposto, che si può essere del tutto sinceri nei confronti di ognuno solo sapendo mentire un poco, a chiunque fuorché a se stessi, che il culmine della castità sta solo nel momento estremo di un piacere sfrenato.
L'opposto di qualsiasi condizione si raggiunge solo quando essa è perfettamente compiuta e realizzata, e ciò non avviene una volta per tutte ma si ripete in una ciclicità infinita, perché ogni cosa esiste più volte, la stessa, nel tempo e nello spazio. Potremmo addirittura condensare in poche parole, non necessariamente chiare, un po' come faccio nelle mie poesie, ma forse ancora più brevemente, la spiegazione apparentemente magica del modo necessario a ottenere sempre ciò che si desidera».
Si interruppe e tracciò alcune lettere su un tovagliolino di carta, con la penna verde che aveva sfilato dalla cartellina delle poesie; vidi che non si trattava di caratteri latini, né greci o cirillici. Me lo porse e io lo infilai nella tasca della giacca, perché non volevo perdere neanche un attimo, non volevo smettere di guardarla e di sentirla nemmeno per poco. Poi riprese:
«Noi siamo già stati qui, in questo luogo, sulle rive del Termaico, e siamo anche in infiniti altri luoghi, in altrettante e contemporanee situazioni del tutto uguali a quella che ora stiamo vivendo. È per questo che possiamo conoscere con certezza ciò che sarà di noi, come si concluderà ogni vicenda, ma solo quando siamo in grado di accettarlo, di credere che sia così, e di rimanere fedeli a ciò che ci attende.
I borghesi invece non lo capiranno mai, finché rimarranno così legati a un tempo che credono in fuga, così ansiosi di afferrare al volo un'occasione che ritengono unica e irripetibile. è per questo che considerano, volgarmente, ogni aspetto della loro vita come un affare da cogliere al volo, anche l'amore...
La sostanza dell'aristocrazia è invece nella comprensione dell'opposto, nell'attesa, o in quella che erroneamente viene considerata rinuncia. Invece non si tratta di ciò, né di un'affettata superiorità quasi snob, bensì della coscienza di essere in grado, sempre, di ottenere ciò che si desidera, ma senza fretta, senza l'ansia volgare di chi vuole tutto e subito e perciò quasi sempre lo perde, in buona parte, e per sempre.
Non capirmi male però: quando parlo di aristocrazia non mi riferisco necessariamente soltanto al sangue, o alla tradizione: sarebbe se non altro indelicato farlo con te, che hai delle precise idee politiche e conformi ad esse la tua vita e il servizio che svolgi per il tuo paese.»
Fin dal momento del saluto aveva iniziato a darmi del tu, e solo ora me ne rendevo conto, perché mi era sembrato del tutto naturale, scontato.
Non sapevo cosa rispondere, e nemmeno se le sue parole richiedessero una risposta. Mi apparvero piuttosto come una lezione, un dono di qualcosa che solo a tratti potevo valutare nella sua reale importanza, anche se il tono e la modulazione delle sue frasi avevano la forma di un messaggio riservato a me solo, e allo stesso tempo la dolcezza di una dichiarazione d'amore. Compresi che era proprio così, e le sorrisi, e la guardai ancora negli occhi.
Lei ricambiò il mio sguardo, a lungo.
Nei nostri occhi coglievamo contemporaneamente il fondo di noi stessi e il mare su cui il sole brillava scintillando in ogni piccola onda, come in un miliardo di specchi. Vedevamo restringersi il passato, fino a scomparire nella svalutazione di ogni ricordo, e il presente espandersi fino a comprendere il futuro, fino a farlo coincidere con il desiderio, che sembrava identificarsi totalmente e inevitabilmente col destino sperato e sottratto alla monotona banalità del quotidiano.
Avrei dovuto allora prenderla per mano, trasformare in un evento reale ciò che già stava avvenendo nelle nostre menti e nel nostro desiderio, ma d'improvviso Rada sembrò scossa, quasi impaurita e in fretta mi disse che suo marito la attendeva per il primo pomeriggio.
Ebbi il tempo di accompagnarla fino al posteggio per vederla partire e chiederle di rivederla, di avere il suo numero di telefono e gli orari in cui avrei potuto chiamarla da Sofia durante la settimana, quando il signor Politídis era ad Atene.
Ci salutammo: ero inquieto, scontento, e mi avviai lentamente verso l'Astoria.
La ritrovai invece nell'atrio:
«Ho cambiato idea, ho telefonato ad Antonio dicendogli che la mia amica aveva un po' di febbre, e avrei fatto bene a fermarmi da lei fino a sera».
Si sfilò l'anello, come fosse il primo gesto di una liturgia privata, e quasi ad anticipare la nudità che fa simile l'amore a una rinascita. Poi, d'improvviso seria, quasi assorbita totalmente in se stessa, con uno sguardo d'assenza mi disse:
«Vieni?»
Mi sentii travolto, ansioso ed esultante insieme...
«Bene.»
Questa volta la voce dell'antiquario era stata brusca, alta, quasi violenta. La mia uscita di scena e il ritorno alla realtà del misero e buio negozio di via Rakovski e di quella parete piatta, mi urtarono e mi innervosirono; la sensazione di complicità quasi amichevole, sia pur leggermente inquieta, che aveva segnato fino a quel momento il mio atteggiamento nei confronti di Penkov, si stava trasformando in ostilità. Mi sembrava quasi di trovarmi di fronte ad un'altra persona, del tutto diversa dall'uomo pacato e incline alla confidenza che avevo riconosciuto tanto simile a me negli atteggiamenti esteriori da destare in me un'istintiva simpatia.
Se ne accorse, e con un sorriso sfumato di superiorità, come fa un buon giocatore quando spiazza l'avversario, mi disse:
«Non si inquieti, la prego, non dimentichi che sono io a decidere cosa vendere - il suo tono divenne ancora più alto, quasi aggressivo - che sono io il padrone qui, e lei non ha alcun potere sulla mia vita, sul mio passato, sui miei ricordi, e men che meno sul mio futuro.
Non deve pensare che solo per il fatto di essere entrato in possesso di una parte della mia vita, e per di più gratuitamente - mi permetta di ricordarlo - lei ora possa accampare dei diritti su tutto il resto. Si può privare forse un uomo dei suoi ricordi uccidendolo, ma comunque essi non divengono in seguito a ciò una proprietà del vincitore, come un bottino di guerra, come le armi del vostro Achille...»
Rimasi un po' sconcertato per il tono, e anche per l'esempio che era stato proposto e che per me risultava estremamente inquietante, e non seppi cosa rispondere.
L'interruzione era stata particolarmente dolorosa: la bellezza di Rada e le sue parole, erano state sul punto di schiudere per me un modo di intendere la vita che a volte mi era capitato di intuire, sospettando fosse quello giusto.
La luminosità di quegli occhi, che erano il compendio di un corpo desiderato e atteso, e l'asprezza del desiderio che stava per realizzarsi nella dolcezza del suo invito, si erano invece interrotte col dolore bruciante di una cicatrice che si rimargina e fa quasi rimpiangere il calore umido ma discreto della ferita ancora aperta.
La delusione si tramutava in astio nei confronti di colui che era ancora, come aveva violentemente sottolineato, il padrone di quell'evento, di quel ricordo, della donna di cui ero ormai perdutamente innamorato.
Al pensiero che egli mi aveva concesso di giungere fino a quel punto proprio per rivendicare il proprio ruolo proprietario, il privilegio di disporre a piacimento di quanto considerava suo, si stava impossessando di me un sentimento simile all'odio, che io da tempo non provavo, che avevo imparato a dover comprimere in nome dell'efficienza, se non della sopravvivenza. Aveva giocato con me, mi aveva illuso, si era divertito a mie spese...
Riprese a parlare con lo stesso tono pacato che aveva usato all'inizio:
«Posso sempre offrirle qualcos'altro, non si abbatta così. Ho molte altre cose, forse non altrettanto belle, ma che certamente la entusiasmeranno. Lei è in fondo un collezionista, e sa che ognuno di noi ha un livello: a tutti piacerebbe possedere solo gli oggetti migliori, ma spesso essi non sono in vendita, come in questo caso, e bisogna attendere la dispersione della collezione compiuta dagli eredi, bisogna aspettare che il proprietario sia morto, ma nemmeno questa è una garanzia, se per caso egli li ha già alienati, o nascosti...»
Aveva riacquistato la calma, se mai l'aveva perduta, o forse, pensai, riteneva così di rendere ancora più evidenti e umilianti per me la sua superiorità e la mia sconfitta.
Contemporaneamente a questo pensiero però, mi sembrò di riudire le parole di Rada quando mi aveva parlato della capacità di saper attendere, della volgarità di chi vuole veder compiersi i propri desideri immediatamente, ritenendo altrimenti di aver perso per sempre un'occasione.
Considerai peraltro che era stato lui la vera persona cui quelle parole erano state donate, non io, ma mi convinsi che quella conoscenza, se non altro - se non il resto che mi era stato negato - era ormai mia. Lui me l'aveva avventatamente ceduta, irreversibilmente, e forse senza rendersi conto di quanto fosse stato improvvido nel farlo. Non era riuscito a comprendere che essa poteva incidere sulla effettiva proprietà degli eventi successivi e sulla sua presunta capacità di possederli pienamente, di decidere la loro collocazione nell'intreccio e nella coincidenza delle nostre reciproche vicende.
Fu per questo che, con disgustosa ipocrisia, simulai di sentirmi nella condizione di chi deve insistere:
«Le offro qualsiasi somma - dissi - per poter entrare in possesso degli eventi immediatamente successivi all'interruzione che lei mi ha imposto: dispongo di parecchio denaro, e non credo che qui sia il caso di parlare più di gratuità, o di antichi doveri di onestà da parte sua. La prego, cerchi di riesaminare la situazione.»
Cadde nel tranello (temevo potesse ancora riprendersi le parole pronunciate dalla sua donna), e compiaciuto della propria posizione, che reputava rafforzata da quanto aveva appena detto, rispose, con un tono reso offensivo dalla presunzione:
«Non ne parliamo nemmeno: come le ho già detto, ciò che lei desidera avere è al di là delle sue possibilità; non si tratta di soldi (e usò un tono di disprezzo, quasi a sottolineare la volgarità della mia offerta, volgarità che io avevo volutamente proposto proprio per trarlo in inganno), non conta quello che si ha ma quello che si sa, o che si è degni di sapere.
La prego di non insistere, lasciamo stare. Forse stasera sarà meglio interromperci a questo punto, ma non vorrei che lei si risentisse, spero anzi che lei voglia tornare a trovarmi, magari domani mattina, verso le dieci, o nel pomeriggio.... ma venga domani, mi raccomando, perché dopodomani non mi troverebbe, devo andare a Salonicco.»
Pronunciando queste parole sorrise sgarbatamente, con tono di sfida e di offesa, rivelando un carattere che all'inizio non gli avrei sospettato.
Dovevo andare da Sergio il mattino successivo, dall'amico che doveva indirizzarmi e istruirmi su quanto dovevo fare a Sofia, perciò pregai Penkov di attendermi nel primo pomeriggio, alle tre e mezzo.
Lo salutai con compunta tristezza, assumendo l'atteggiamento sconsolato di chi si sente sconfitto e uscii nella strada umida, sull'asfalto bagnato che rifletteva la luce dei fanali.
Respirai l'odore della pioggia, e per un attimo mi sembrò di essere uscito da un incubo, ma ben presto mi resi conto che in quel buio i miei occhi si riempivano del volto di Rada, del colore dei suoi occhi e del suo anello, della luce dei suoi capelli, e che non riuscivo a vedere nulla, se non lei, a pensare ad altro che alle parole pronunciate da lei per me, per me solo: quelle affermazioni, capaci di incidere il futuro e di determinarlo erano ormai soltanto mie, non più di Penkov.
In esse era contenuto, irrevocabilmente, anche quello che lui non aveva voluto darmi, da esse mi proveniva la certezza che io avrei avuto ciò che desideravo, anche se non potevo ancora prefigurarmi come ciò sarebbe potuto avvenire.
Raggiunsi in fretta il Savastopol; dopo aver pranzato salii prestissimo in camera: avrei dovuto eseguire i soliti esercizi di rilassamento e di concentrazione in vista della giornata che mi attendeva l'indomani, ma non riuscivo a eliminare dai miei pensieri il volto di Rada; mi addormentai con quella stessa sensazione di tepido abbandono che avevo provato a Salonicco e a Godeovo.
I miei sogni non furono altro che tentativi di proseguire il ricordo là dove Penkov lo aveva interrotto; ogni volta gli esiti erano diversi: si incrociavano coi ricordi del viaggio in treno, confondevo ovviamente me stesso con lui e Anna con Rada. A volte invece attribuivo a lei le parole del suo amico, e viceversa; mai però i miei nuovi eventi si confusero con quelli che avevano preceduto l'entrata di Rada nello scompartimento, alla stazione di Bucarest e con quanto era avvenuto nella mia vita prima di quel fatto.
Non avevo nessun riferimento alla mia casa di Finsbury, ai miei amici o al mio impiego, e dovevo fare uno sforzo per ricordare almeno gli elementi essenziali di ciò che ero stato prima.
Mi svegliai presto, e riuscii a distogliermi dall'entusiasmante inquietudine che mi aveva irretito negli ultimi due giorni, a dedicarmi completamente alla giornata difficile ed emozionante che probabilmente mi attendeva.
Dovevo uccidere, come altre volte, ma non sapevo ancora chi, o quando.
Nemmeno il perché rientrava tra le cose che io dovessi sapere anticipatamente: era stato sempre così, proprio per impedire che l'ostilità oppure l'odio limitassero la lucidità e gli automatismi necessari all'esecuzione corretta del compito.
Ho sempre creduto, pur senza poter esserne certo, di essere al servizio dell'alleanza militare di cui fa parte la mia nuova patria, ma dopo quella che viene definita la fine della guerra fredda non avevo avuto più occasione di venir impiegato in missioni di questo genere. La mia attività era divenuta un lavoro abbastanza monotono di ricerca che svolgevo tra Londra e alcuni paesi dell'Europa orientale, e finora i miei dirigenti non avevano mai ritenuto opportuno impiegarmi così vicino al mio paese di nascita, anche a causa della particolare posizione della Grecia in seno all'Alleanza. Avevo capito ben presto che era terminata soltanto una fase, o una modalità forse, del confronto che mi aveva visto partecipe.
Quando mi era stato comunicato che dovevo partire per Sofia avevo compreso, dai particolari operativi e dall'espressione dei colleghi che si trattava di quel tipo missione che io pensavo di non dover svolgere più, e non mi era stato facile comprenderne la necessità. Alcune brevi frasi mi avevano insospettito, e così avevo chiesto di parlare col mio referente.
«Ma caro dottor Lanáras, - aveva risposto un po' sostenuto, dopo alcuni brevi convenevoli, alle perplessità che gli avevo esposto - lei deve innanzitutto tener conto del fatto che io ho accondisceso a parlare con lei di argomenti non strettamente operativi, contrariamente alle nostre norme, solo in considerazione della particolare situazione che stiamo vivendo e della sua posizione atipica di dipendente non stipendiato. Lei ha fatto molto per noi, e non possiamo dimenticarlo, anche se la sua dichiarazione di alcuni anni fa, quando disse alla signora Österlund di essere un collezionista di emozioni, è stata registrata e assunta agli atti di questo ufficio: essa in parte svaluta, perlomeno nelle motivazioni, il merito che le viene formalmente riconosciuto, non lo dimentichi.
Ritengo peraltro sia nell'interesse del Servizio metterla a parte delle nostre valutazioni sulla situazione del - diciamo così - dopo-muro: noi riteniamo che l'attuale momento debba essere considerato una delle fasi della politica di Gorbaciov. La definizione è però impropria; la cosiddetta perestrojka è stata il frutto di un lavoro di gruppo iniziato sotto Andropov, con l'ausilio di potenti strumenti di calcolo statistico che potevano prevedere la ramificazione probabilistica di numerosi scenari possibili, di altrettante soluzioni e comportamenti conseguenti. Ognuno ha giocato il proprio ruolo più o meno consapevole, anche quando si affacciavano eventi apparentemente imprevisti e imprevedibili. Questa convinzione ci ha imposto di comportarci come se non ci fossero state interruzioni o svolte, ma come se ci trovassimo di fronte a una vera e propria continuità operativa della precedente confrontazione.
Non è certo il caso che io mi perda a spiegarle come siamo giunti a questa conclusione per via analitica, né a convincerla citandole le conferme oggettive che in seguito siamo riusciti ad acquisire. Le assicuro però che nei paesi dell'Europa orientale e in molti paesi occidentali, forse più che nell'ex URSS, i dirigenti comunisti dimostrano col loro comportamento di essersi adeguati a un progetto comune, che, con ogni evidenza, coincide esattamente con quello che noi riteniamo di aver individuato nella cosiddetta perestrojka.
In particolare siamo certi che non sono mutati né i ruoli, né la suddivisione dei compiti, almeno nella maggior parte dei casi.
Troppi agenti e collaboratori, che ritenevamo estremamente pericolosi, si sono ritirati dal servizio e hanno lasciato gli impieghi di copertura: ciò dimostra a nostro avviso che sono ancora in attività e continuano a costituire un pericolo per la nostra sicurezza; non è detto che lei non possa vedere un giorno un nuovo alzabandiera sul Cremlino... le piacerebbe?»
Sorrise in maniera equivoca, inquietante, perché conosceva - ma fraintendeva - il mio agnosticismo ideologico.
«In ogni caso i suoi compiti sono, ancora una volta, in questo caso, quelli di un tempo. Spero di aver soddisfatto la sua curiosità e di averle fornito quella carica che forse aveva perduto, nella ricerca delle emozioni di cui ha bisogno per la sua collezione.»
Concluse bruscamente:
«Arrivederci! »
Mi recai in fretta all'appuntamento con l'uomo che doveva darmi le ultime istruzioni e fornirmi i mezzi per poter agire. Ci trovammo al museo d'arte moderna, in via Gurko. Parlava in fretta, nervoso:
«Il tuo obiettivo è un ex dipendente statale che ha lasciato l'impiego nel 91. Ha ucciso il dottor Rumko nella metropolitana di Londra, riteniamo sia coinvolto in un progetto di restaurazione del vecchio regime, è in contatto con comunisti greci, viaggiava per lavoro poiché era impiegato al ministero del Commercio estero, si dilettava di antiquariato e partecipava ad aste a Londra e in altri paesi occidentali, ma lo faceva per coprirsi, poi quando si dimise dall'impiego, aprì un piccolo negozio di antiquario in centro, in una zona dove gli affitti erano già ormai molto alti; esponeva in vendita della paccottiglia del tutto inadeguata al costo del locale, e dopo aver venduto tutto continua a stare nel negozio ormai vuoto, continua ad andare all'estero, spessissimo a Salonicco, forse per vedere qualche suo vecchio compagno del KKE, forse una donna.
Va eliminato per dimostrare che abbiamo capito, dice il tuo capo, anche se io non so cosa intenda con ciò.»
Mi diede una scatola di caramelle, molto pesante.
«C'è una CZ 1924, col silenziatore; si chiama Costantino Penkov, Rakovski 22; dopo lascerai l'albergo e verrai da me, a qualsiasi ora, ti porterò con la macchina in Macedonia: andrai dagli Americani, a Petrovac.»
Non mi aveva lasciato il tempo di parlare, ma mentre ascoltavo le sue parole la calma che dovevo sempre impormi, che era uno strumento di quel lavoro, mi aveva abbandonato.
Il mio interlocutore, che non mi conosceva bene, l'aveva scambiata per quel nervosismo che chiunque mostra in prossimità dell'azione e che in me era stato invece sempre assente, a causa del piacere fisico, intenso, che il rischio mi donava, che profumava la mia vita. Erano questi istanti gli oggetti che io appunto collezionavo, proprio come Penkov, ormai era chiaro.
Le immagini che avevano segnato i due giorni precedenti e i sogni di quella notte, quelle stesse che mi ero imposto di comprimere nell'imminenza dell'azione, avevano ripreso il sopravvento. Non solo: le parole che avevo appena udito mi stavano procurando un incontrollabile senso di angoscia. Se l'antiquario moriva non avrei potuto impossessarmi dei suoi ricordi, sarebbero finiti con lui, esattamente come egli stesso aveva detto poco prima che ci lasciassimo, la sera precedente.
Pensai alla possibilità di raggiungere Salonicco e cercare la signora Politídi, per realizzare da solo, nel mio presente, ciò che invece pretendevo dai ricordi e dal passato di un altro. Ma mi resi conto che mi sarei presentato a lei senza alcuna speranza: l'innamoramento che ormai era divenuto mio, iniziato da me stesso in treno, ma proseguito solo nella mia immedesimazione in Penkov, mi bloccava in un preciso momento, che non aveva uscite se non nella prosecuzione dei ricordi dell'antiquario. Anzi quel "seguito", la realizzazione dell'amore per Rada, che io potevo soltanto immaginare, come un voyeur, perché non ero stato io a viverla, e che Penkov si era rifiutato di far divenire totalmente mia, inibiva ogni possibilità di un'evoluzione dei fatti che dipendesse soltanto da me.
Ciò rendeva inutile ogni eventuale e autonoma iniziativa: il mio avversario mi aveva giocato!
Se almeno il suo amore per quella donna fosse rimasto al momento del desiderio incompiuto, quello stesso in cui anch'io mi trovavo, allora avrei potuto proseguire da solo, senza dovergli chiedere nulla. Questo pensiero però, lo riconobbi, era dettato dalla gelosia, che è una condizione di subordinazione, di dipendenza, e si trasformava in una speranza assurda e misera.
Mi trovavo ancora una volta in una soffocante strozzatura del tempo, senza vie di fuga, caratterizzata da una circolarità ineludibile, che allora mi appariva come un male. La morte dell'antiquario, con l'estremo conchiudersi delle sue azioni, avrebbe reso definitiva per me l'impossibilità di uscire da quel labirinto, e quindi avrebbe imprigionato nell'attimo conclusivo anche il mio tempo, il mio divenire.
In un certo senso sarei morto con lui: non avrei mai potuto vivere il momento successivo all'ultimo ricordo di Rada perché solo lui l'aveva posseduto e, morendo, non avrebbe più potuto cedermelo. Non potevo quindi ucciderlo perché non potevo fare a meno di lui: dovevo sottrargli il segreto di cui avevo bisogno per riuscire a sbloccare quell'attimo eterno, per poter essere io, con le mie forze, con le mie esperienze, anche se acquistate da un altro come una chiave falsa, ad entrare nella vita della donna che desideravo, e così potermi inoltrare in un succedersi di altri avvenimenti aperti sul futuro.
Io li attendevo e li prevedevo, anche se il giorno precedente non avevo avuto la possibilità di conoscerne l'evoluzione, la desiderata realizzazione.
In questo turbinare di pensieri e di emozioni mi sfiorò per un attimo il ricordo delle parole pronunciate da Rada e che la sera prima, durante la contesa, avevo pensato potessero contenere la soluzione, il punto debole nella posizione di Penkov. Per il resto colui che era divenuto il mio avversario appariva in posizione di assoluta superiorità, di privilegio.
Era lui, senza dubbio, non io, colui che apparteneva a Rada, al quale si era implicitamente promessa, era lui l'uomo della sua vita (non mi aveva mai sfiorato il dubbio che lei potesse amare il signor Politídis, il ricco borghese che aveva sposato).
Io però avevo ormai ascoltato, forse senza capirlo, quasi con paura, il segreto di quell'amore destinato, e cercavo il modo con cui materializzare la certezza, soltanto intuita, di poter realizzare il desiderio che sempre più aspramente contendeva con me e con i miei sogni.
Queste diverse ipotesi, che a tratti mi apparivano contrassegnate da una logica necessità, altre volte derivanti soltanto dalla speranza o dall'illusione, mi turbavano profondamente, a causa del loro rapido alternarsi. Non ne venivo a capo, e intanto, con quell'odiosa aria da cospiratore, da patriota convinto di lavorare per un ideale, Sergio continuava a parlare, e mi distraeva.
Ma in me i pensieri divenivano immagini, e vedevo me stesso ucciso, nel negozio vuoto di via Rakovski, al posto della vittima destinata. Come in un rapidissimo sogno mi sentivo lentamente morire, e vedevo finire in me quella vicenda, e ferirmi, bruciante, il desiderio di vivere ancora per vedere, per vivere quello che mi attendeva dopo l'invito di Rada nell'atrio dell'Astoria, e la vita spegnersi invece, e illanguidirsi, in un tepido torpore che mi riportava alla villetta liberty e all'amore di Anna, e al fuoco che si spegneva...
«Lo conosco - dissi quasi con violenza all'altro, che mi guardò sbigottito, prima impaurito, poi chiaramente sospettoso - è un caso, ma sono stato da lui ieri: anch'io sono un collezionista, frequento gli antiquari. »
«Ma se non ha più nulla in negozio.. », cercò di ribattere, ma io sorvolai e continuai a parlare:
«Rimandiamo comunque a domani; devo rivederlo stasera, spero di riuscire a farmi dire qualche nome, - potrebbe esserci utile - mi ha parlato di alcuni suoi conoscenti che hanno suscitato il mio interesse, meriterebbe saperne qualcosa di più; mi ha detto anche di un suo prossimo viaggio a Salonicco, domani stesso forse. »
Mi rendevo conto che la mia richiesta, come ogni dilazione che noi ci concediamo, nell'amore e in ogni rischio, aggravava il pericolo del fallimento, ma quasi me ne compiacevo.
Era certamente avventato portare con me quella pistola o lasciarla nella stanza più a lungo di quanto non fosse strettamente necessario: mi avevano ripetuto mille volte che il segreto del successo è nel rimuovere ogni pensiero, ricordo o emozione che siano estranei a ciò che si sta compiendo.
Ma il desiderio di lei, della sua bocca, la dolcezza dell'estenuazione che già avevo conosciuto con Anna e attendevo da lei, mi impedivano di mantenere coerenza tra me stesso, i miei pensieri e ciò che il mio compito, ormai completamente svalutato da un evento irripetibile, avrebbe imperativamente richiesto.
Sergio non poté fare a meno di acconsentire, convinto dalla mia sicurezza, e pensando di doversi fidare della mia esperienza: non poteva immaginare quali fossero i veri motivi che mi spingevano a una trasgressione così inusitata alle rigide procedure abituali, e se lo avesse saputo mi avrebbe di certo considerato un irresponsabile.
Io mi rendevo conto di esserlo, e ne ero fiero e felice: era il segno della mia capacità di pormi al di sopra delle norme, nella dignità del pericolo. Spesso ne avevo sperimentato l'efficacia nello scioglimento di incognite altrimenti irresolubili, di situazioni apparentemente senza uscita che mi si erano presentate nella carriera di collezionista e di attore. Non ero mai stato in grado però di far rientrare in una dimensione razionale, in un teorema, quel mio modo di comportarmi e di scegliere. Però forse era riuscita a darmene una parvenza la donna che ora mi donava una calma sicurezza proprio con l'estenuante desiderio di sé, quando sulla riva del golfo aveva parlato della virtù come della "maschera del proprio opposto", e della necessità di "svincolarsi".
Le sue parole segnavano per me l'inizio di un nuovo modo di intendere, riducendo in un sistema coerente la mia vita e il suo dolce disordine, che era stata la fonte, fino ad allora inconsapevole, del mio piacere...
Dissi a Sergio che l'avrei rivisto l'indomani, all'Erma, a ora di cena. Tornai all'albergo e rientrai nella mia stanza, con la pesante scatola di caramelle che misi sul fondo della valigia, così che non fosse necessario frugare sotto di essa e quindi sollevarla.
Mi distesi sul letto cercando di riannodare i fili di tutti i pensieri e delle disordinate ipotesi che mi si erano affacciati durante l'incontro con Sergio e che le sue frasi inquiete mi avevano impedito di chiarire a me stesso. Compresi che le parole pronunciate da Rada allo Yachting mi avevano dischiuso possibilità di azione che prima non avevo sospettato, incrementate dall'eliminazione di qualsiasi preoccupazione, etica o pratica, che fosse legata al veloce svolgersi del tempo e all'estensione dello spazio.
La puntualità e la sostanziale unità di questi due parametri infatti esaltavano l'autonomia di ogni atto nel momento stesso in cui la negavano, riconducendo a unità ogni pensiero, ogni oggetto, ogni persona.
La coincidenza che avevo individuato nei diversi attori delle straordinarie esperienze che stavo vivendo, e in particolare quella che mi sovrapponeva a Penkov, facendomi dipendere da lui, mi toglieva però la possibilità di giungere da solo al raggiungimento di quanto desideravo.
La morte che io dovevo procurargli era pertanto incompatibile con quanto mi prefiggevo, perlomeno fintanto che io non fossi entrato in possesso di quella parte di ricordi che egli mi aveva negato, e fossi così uscito dal vicolo cieco in cui egli mi aveva relegato. Potevo altresì rinunciare a quanto così fortemente volevo, ma tale resa si sarebbe trasformata in una rinuncia a vivere, e quindi, in un certo senso, io stesso sarei morto contemporaneamente alla mia vittima, per mia stessa mano. Dovevo invece ottenere da lui ancora qualcosa, anche pochi minuti soltanto, quei pochi in cui la donna che mi si era offerta mi sarebbe apparsa alfine svelata e libera dai nascondimenti che ancora mi impedivano di comprendere appieno le sue parole, o di metterne in pratica il contenuto, e mi avrebbe permesso di dedicarle me stesso. E pensai, sorridendo tra me, di essere simile a un esegeta neoplatonico, che vorrebbe nuda la santa sapienza bizantina, nella luce d'oro di quella città scomparsa.
Bastava molto poco quindi, perché io riuscissi a superare quel punto dal quale si sarebbe dischiusa per me la possibilità di essere assolutamente libero, padrone dei miei pensieri e delle mie azioni, svincolato da ogni determinazione di causa e di effetto, da ogni norma, sottratto persino al caso.
Avrei cercato di convincere Penkov a darmi quel poco che mi serviva, poi lo avrei ucciso.
All'ora stabilita mi ritrovai al numero 22 di via Rakovski, ed entrai, suscitando l'antico campanello, mentre la stessa musica del giorno prima, in una ripetizione che ormai risuonava sinistra, continuava a provenire dal retrobottega.
Penkov mi attendeva già seduto, in assoluto silenzio, come un giocatore che contempla la scacchiera e non si distrae quando giunge l'avversario a riprendere la partita interrotta.
Quasi ad accettare il simbolico ruolo che mi veniva tacitamente richiesto, sedetti allo stesso posto della sera precedente, e attesi. Dopo alcuni secondi di silenzio, durante i quali riuscii per la lunga abitudine a dominare l'ansia che più volte fu per sopraffarmi e rischiò di farmi parlare per primo, il mio avversario cominciò:
«Mio caro dottore, lei è preda di una delle emozioni più violente e implacabili che possano impadronirsi di un essere umano. Lo affermo con certezza perché non solo questo tipo di emozione, ma essa stessa, e la persona medesima che l'ha generata, sono state mie, prima di transitare in lei, quindi non posso sbagliarmi.
Lei è innamorato, è stremato dal desiderio di un corpo, di una bocca, degli occhi di Rada Politídi, della sua voce, forse anche della sua mente e dei suoi pensieri.
Non sottovaluti però il fatto che queste emozioni sono ora soltanto sue, e che sono dovute in gran parte a un desiderio inappagato.
Consideri, la prego, che l'intensità di questa sua passione dipende soprattutto dalle ultime parole che la Signora ha pronunciato prima che io mi affrettassi (sia pure con un attimo di ritardo) a interrompere il ricordo: lei si è lasciato coinvolgere a questo punto, in un modo che non so se definire infantile, poco intelligente o disgustoso, solo perché è convinto che quella donna le stesse offrendo se stessa.
Lei crede di essere stato vicinissimo al momento in cui l'avrebbe vista senza schermi, nuda nella sua inimmaginabile bellezza per donarle il piacere estremo della conoscenza, quella perdita assoluta della coscienza di sé e dell'altro in brevi momenti sottratti al tempo, simili in ciò a una dolcissima morte.
Ma questo è soltanto il suo punto di vista: lei ha udito quelle parole, ma non fu a lei che venne rivolta quell'offerta. Potrebbe divenire sua solo se la promessa che conteneva si compisse proprio in lei, e - sorrise, deridendomi - non magari in un altro...».
Non compresi esattamente ciò che voleva dire con queste ultime parole, parlando di "un altro", ma risolsi immediatamente, banalmente, che stesse riferendosi a sé stesso, per tormentarmi.
Gli sforzi che stavo compiendo per mantenermi calmo divenivano sempre meno efficaci: quell'uomo mi stava insultando, mi aveva ingannato, mi provocava e si prendeva gioco di me. Ma non l'avrei ucciso anche se avessi avuto con me l'arma lasciata nella valigia: sapevo bene che in quel modo avrei perduto, e volevo invece vincere. La vittoria era quanto avevo cercato invano, nelle azioni precedenti, gratuite, rivolte unicamente alla ricerca del rischio e del piacere, un piacere che forse non ero mai riuscito interamente a cogliere, proprio perché ne ero stato un avido collezionista.
Ora dovevo lasciarlo parlare, e in un modo o nell'altro convincerlo a darmi ciò che volevo da lui; dovevo pertanto continuare a tacere.
«Come succede a tutti, non se la prenda, - continuò - l'intensità e la durata del suo desiderio è determinata non da elementi oggettivi, come l'amore, il desiderio di donare se stessi, l'eccellenza di ciò che bramiamo, ma dalla probabilità di ottenerlo. Già questa considerazione ci svàluta, insieme a tutti i nostri sentimenti, perché indica la nostra incapacità di uscire da noi stessi e da una mentalità sostanzialmente vile, che desidera maggiormente ciò che reputa più facile, o probabile. Resta poi da verificare se quelle che consideriamo promesse lo siano realmente, e non siano invece anch'esse immagini deformate ed enfatizzate dal desiderio, per cui crediamo di vedere o di capire ciò che vorremmo fosse, e non ciò che effettivamente è.
Temo che lei abbia corso troppo, anticipando i tempi e forzando la realtà al di là di ogni ragionevole e dignitoso rispetto della verità, di se stesso, e di ogni altro attore di questo evento, che per questo motivo, per il suo egoismo, si sta forse trasformando in tragedia.
Del resto lei è greco, come mia madre...».
Il vantaggio che Penkov aveva già acquisito su di me si stava accentuando: stavo infatti cedendo alle sue parole, ne riconoscevo l'incontrovertibile chiarezza, erano poi le stesse che più volte avevo rivolto a me stesso, quando, come in ogni Greco che pensi, si erano scontrate dentro di me l'insana ricerca della forma con la scarna lucidità dell'evento.
Mi stava affascinando col suo realismo, mi convinceva col suo disilludermi, con la severità concreta dei suoi procedimenti logici, e questa superiorità si dimostrava ben più consistente ed efficace di quella acquisita con le mosse abili che aveva effettuato, e che non erano altro forse che la conseguenza di quella.
Ero sul punto di essere convinto, e quindi definitivamente perduto.
Riuscii però ad adottare le stesse tecniche che consentono di sfuggire alla tentazione di confessare durante un interrogatorio, di cedere, di essere sconfitti; simulai ancora una volta umiliazione e debolezza, afferrandomi contemporaneamente e saldamente ai motivi che avevano determinato la contesa e il mio impegno in essa, concentrandomi esclusivamente su di essi e ribadendo a me stesso la loro inattaccabile forza, la loro irrinunciabile verità.
Questo procedimento, quasi automatico, fece ricomparire dinanzi ai miei occhi il volto di Rada e il suo sguardo, mi fece riudire le sue parole, e fui ancor più determinato a vincere: non mi bastava quanto mi aveva già detto, perché solo confusamente quei concetti risuonavano nel mio pensiero e nei miei sensi, eppure non erano ancora sufficienti a farmi uscire dal carcere che essi ormai costituivano per me.
La definitiva rottura di quel vincolo che mi incatenava a me stesso e che solo ora vedevo, quella stessa catena di viltà cui l'antiquario aveva fatto cenno, ma solo per farmene sentire ancor più il peso, e non certo per liberarmene, poteva compiersi solo negli atti, nei gesti e nella nudità dell'amore, quegli stessi di cui avevo colto i prodromi quando lei si era sfilata l'anello, come in una liturgia, e mi si era offerta, come la luce che le splendeva nei capelli.
Erano stati segni indubitabili: invano Penkov, per rimediare l'errore commesso rendendomene partecipe, stava tentando di svalutarli e di attribuirli ad una mia enfatizzazione.
Continuai a tacere, e ciò lo sbilanciò, inquietandolo; ciò non ostante proseguì:
«So benissimo che proporre ora alla sua attenzione qualche altro oggetto, per quanto interessante o bello esso possa obiettivamente essere, sarebbe del tutto inutile, e provocherebbe comunque un rifiuto, ma voglio tuttavia fare un tentativo Ho molti ricordi rischiosi, misteriosi e quasi romanzeschi, altri legati a situazioni di carattere generale che hanno coinvolto il nostro continente e grandi personaggi storici di un recente passato...»
Stava forse dicendo ancora la verità, stava forse cedendo su qualcosa che fino a poco tempo prima mi avrebbe entusiasmato, ma non riuscì nemmeno a tentarmi:
«Non ne parli neppure - risposi fingendomi affranto - non desidero altro che quella donna; se non fosse una frase fatta, una di quelle che io rimproveravo ... che lei rimproverava ad Anna, le direi che non potrò continuare a vivere senza di lei.»
Era vero, ma in una dimensione totalmente diversa da quella che io stavo recitando. Era infatti la dimensione della verità, che ansiosamente bramavo nella sua magica trasparenza, nella sua forza incandescente, espressa nel gioco dei ritmi d'amore e nella gioia senza freno della danza che lo compie.
Ero certo del mio destino, di quell'amore e della verità che caratterizzava entrambi. Lo implorai di condurmi con sé a Salonicco, perché - gli dissi - desideravo rivedere Rada un'ultima volta, prima di tornare a Londra dopo un viaggio così inutile e deludente, a cercare di ritrovare tra i vecchi pezzi della mia collezione la consolazione dal fallimento e a dimenticare quel deprecabile e infantile desiderio del nuovo, di quanto per me si era dimostrato irraggiungibile.
Stette un attimo pensieroso, temendo non si trattasse di un tranello qual era in realtà, ne considerò la possibilità, compresi che stava valutando, con lucida freddezza, i possibili rischi, ma alla fine l'amore per essi che ci accomunava, ebbe il sopravvento. Ritenne probabilmente che la mia sconfitta sarebbe così divenuta ancor più grave e bruciante, e ne assaporò il piacere, e mi disse:
«Non voglio essere crudele con lei: in fondo sono stato io a porla in questa imbarazzante condizione (e usò il participio inglese, quasi a rendere ancor più ipocrita e pungente la parola). Io vedrò infatti la signora Politídi a Salonicco, e anche lei avrà così la possibilità di vederla, anche se non con i miei occhi, come avrebbe sperato. Potrà quindi parlarle e salutarla, ma non si illuda: è mia.
E' per avere lei che ho venduto tutto, che ho lasciato il mio lavoro., e ora ho lei soltanto.
La collezione ideale è costituita da un unico pezzo, il più bello cui chiunque possa aspirare per unanime consenso: quando si è riusciti ad averlo (ma bisogna aver ceduto tutti gli altri prima), null'altro è degno di considerazione, e lo si lascia agli altri collezionisti, ai minori, come gli avanzi ai cani.»
Con queste ultime frasi si era tradito, e due volte.
Prima di tutto non era vero che avesse lasciato il suo lavoro: il progetto, quella strategia a lunghissimo termine che aveva dovuto riunire ben cinque piani poliennali in uno solo, esteso su venticinque anni, a causa della prevedibile impossibilità di stenderli normalmente, lo vedeva pienamente e consapevolmente coinvolto. Non potevo dubitare della fonte che mi aveva messo al corrente di ciò.
Ma - quel che più contava per me in quel momento - egli si era tradito anche con quel prima: perché allora si sarebbe trovato nella necessità di alienare (proprio a me del resto) dei ricordi che ancora ieri lo impacciavano, se già possedeva il pezzo unico, quella che nella sua follia, era la collezione ideale?
Non tornavano i conti, qualcosa non quadrava; non riuscivo ancora a comprendere cosa, ma io, ne ero certo, non ero estraneo a tale contraddizione, ancora indefinita per me.
Sospettai che la soluzione risedesse nel conflitto tra le idee che Rada mi aveva espresso... gli aveva espresso a Salonicco, e che avevano brillato come squame nel sole e nelle brevi increspature del Golfo Termaico e il suo modo di intendere l'amore, la sua incapacità di uscire da se stesso, che imputava a me, che sosteneva solo a parole. I suoi comportamenti invece lo negavano.
Era qui la mia forza, il mio vantaggio: non aveva ascoltato le parole di Rada, non aveva nulla da darmi; la prosecuzione dei fatti che io avevo desiderato, avevo immaginato fosse in suo possesso, che avevo sperato di ottenere da lui, non c'era mai stata, egli l'aveva soltanto millantata, ma non potevo capire cosa avesse potuto interrompere il corso degli eventi che l'offerta di Rada sembrava rendere ineluttabile.
Mi ricordavo però di aver sentito parlare, ma non quando né se per caso fossi stato io stesso a dirlo, di fedeltà al destino: era proprio la mancanza o la presenza di ciò a poter interrompere per chiunque lo svolgersi di avvenimenti apparentemente certi, e il loro nesso di causa; a realizzare per altri ciò che sarebbe potuto apparire impossibile. Proprio come Rada aveva affermato, era una formula semplice, tanto che potremmo ad ogni istante condensarla in poche sillabe, in brevi parole anche prive di senso apparente. Per un attimo ricordai il foglio sul quale lei aveva scritto qualcosa, ma il pensiero subito mi sfuggì, distratto dalla presenza inquietante di chi mi stava di fronte e dalla forza di coinvolgimento che proveniva dalla contesa cui partecipavo.
Mentre rivolgevo tra me queste considerazioni Penkov riprese a parlare:
«Non siamo mai in grado di sapere cosa ci attenderà l'indomani, - il suo tono era divenuto sentenzioso, cattedratico, poiché si illudeva di avermi ormai convinto alla rinuncia - i nostri desideri ci soffocano e perdiamo di vista la realtà degli eventi.
Crediamo al destino, alla verità, alle parole degli illusi; quando non riusciamo ad ottenere ciò che desideriamo dobbiamo rivolgere il nostro interesse ad altre cose, ed allora esse ci appariranno le migliori. Ogni cosa è soltanto relativa alle condizioni che ne determinano l'esperienza...
Le ho parlato un attimo fa del pezzo unico, il più bello, quello per cui tutti gli altri devono essere abbandonati, e lei avrà certamente compreso che mi riferivo all'amore della Signora; veda: pur essendone l'orgoglioso proprietario io mi rendo conto che non può in nessun caso essere definito il pezzo più bello per un collezionista, che di certo ve ne sono di migliori. Esso lo è soltanto per me, e in questo momento. Lo è forse anche per lei, Lanáras, ma solo perché ha vissuto una parte di me stesso, e si è illuso.»
Ero ormai certo di trovarmi di fronte a una contraddizione: le sue idee contrastavano recisamente con le parole di Rada: lei mi aveva parlato dell'unità di ogni cosa, e lui la spezzettava in infinite situazioni diverse, lui mi parlava di rinuncia e di caso, lei mi aveva lodato l'attesa e la fedeltà a ciò che ci attende.
Vi era una soluzione soltanto: non l'aveva ascoltata, non ricordava più quelle parole, forse non si era mai veramente avvicinato a Rada quanto era necessario a comprenderle. Forse l'aveva vista nella sua realtà, nell'amore, solo col desiderio, con un desiderio volgare, forse io avevo avuto più di lui, ne ero stato più degno.
Forse il loro amore, nella stanza dell'Astoria, quello che io avevo desiderato, che avevo voluto mi fosse ceduto, non c'era mai stato.
Mentre parlava di queste cose, anche senza narrare direttamente i fatti, come le altre volte, io vidi ugualmente ricomparire sulla parete di quella bottega l'atrio dell'Hotel Astoria, nello stesso momento in cui Penkov aveva interrotto il proprio ricordo il giorno prima: vidi Rada che mi guardava con assorta dolcezza; la sua mano racchiudeva tra le dita che amavo l'anello che si era appena sfilata.
Ma mi accorsi subito con rabbia che di fronte a lei vi era l'antiquario, non io. Non ero io l'oggetto di quello sguardo.
L'emozione intensa e fisicamente percepibile di quel momento risolutivo si tramutò in una stretta angosciosa, e mi sembrò di dover rinunciare a ogni certezza, a quella calma fiducia che fino a quel momento, nonostante tutto, mi aveva spinto ad agire, al destino sognato, che avevo sentito realizzato ancora prima che si compisse.
Stavo per assistere alla mia definitiva sconfitta: avrei veduto dall'esterno, da spettatore l'evento desiderato, che così non sarebbe mai più stato mio, come in uno specchio enigmatico, estraneo a me e alla mia capacità di comprendere.
Mi sentivo tuttavia quasi sollevato, liberato come un vile da un peso opprimente; da quel momento io non dipendevo più da nessuno; non dovevo più lottare con l'antiquario affinché mi cedesse qualcosa di suo, la chiave falsa per possedere un passato ed entrare in futuro che non mi appartenevano. Non avevo più motivo per dover credere alle affermazioni di Rada, e così essere follemente fedele ad un destino che mi era sembrato mio, potevo rinunciare alla fatica di credere, allo sconvolgimento di quella pacata inconsapevolezza che la contemplazione della verità nuda mi avrebbe imposto, come un trauma, nella luce della conoscenza. Stavo così per accettare la definitiva supremazia del mio avversario, per stanchezza. Stavo per soccombere.
Il timore del nuovo aveva di nuovo il sopravvento, l'amore del pericolo che avevo collezionato per tutta la vita, quello materiale, mi sembrava sufficiente. Nella mia vigliaccheria non ero capace di continuare a volere il massimo dei rischi: l'uscire da me stesso nell'amore che rende ogni piacere simile a una morte.
Ma la scena cui stavo assistendo cominciò a configurarsi ben diversa da come l'avevo immaginata e voluta per me, quando avevo sofferto per non aver potuto divenirne il padrone: vidi Penkov (non quello che stava dinanzi a me, ma il personaggio dell'albergo Astoria, lo specchio di me stesso) impallidire, fu sul punto di dire qualcosa, ma non fu necessario.
Rada comprese il suo timore, la sua estrema debolezza, ed era la mia, quella stessa che un attimo prima mi aveva avvolto nella colpa della rinuncia; rimise l'anello al dito con un'espressione di delusione negli occhi, e si voltò verso l'uscita.
Vidi l'uomo che avevo desiderato di essere girarsi lentamente verso la prima rampa di scale, larga come tutto l'atrio, e salire lentamente, sconfitto dalla sua stessa infedeltà, dalla sua incapacità di ascoltare ciò che la Donna poco prima gli aveva detto, di andare oltre, di essere padrone degli eventi. Stava tornando a sognare la sua Anna, che aveva perduto, senza comprendere che gli era stata un attimo prima di fronte, rinnovata e rifiorita per lui, come una stagione.
Era stato sulla soglia della verità e aveva avuto paura di varcarla, come tutti così spesso facciamo.
Compresi allora (e con che gaia esultanza) ciò che veramente significava per me la scena cui avevo assistito e della quale l'antiquario seduto di fronte a me, perso nelle proprie prediche sapienziali, tutto preso dall'ammirazione per se stesso e per la profondità dei propri pensieri che io non ascoltavo più, sembrava non essersi minimamente accorto.
Potevo riprendere in mano il filo degli avvenimenti e del desiderio, in piena autonomia, finalmente padrone di me stesso e del mio futuro; ero in grado di proseguire da solo, non dipendevo più da Penkov, potevo oramai ucciderlo e proseguire. Simulai ancora una volta la delusione e la sconfitta, nascondendo a stento l'esultanza, e dissi:
«D'accordo, non posso rinunciare a questa ultima consolazione che lei vuole così gentilmente donarmi: verrò con lei a Salonicco, dove vedrò per l'ultima volta, senza speranza, la sua donna, il pezzo più bello della sua collezione, l'unico, come lei dice. Posso passare di qui domattina? Potremmo andare assieme alla stazione.»
«Ma certamente, caro Lanáras, la attendo qui alle dieci meno un quarto.»
Anche se la sua voce lasciava trapelare l'emozione della vittoria, mi apparve stanco, abbattuto: si guardava intorno come se cercasse qualcosa e notai dei sussulti che lo inquietarono, mentre, con estrema lentezza, mi accompagnava alla porta.
Non potevo essermi sbagliato: ora sapevo che aveva venduto tutto e non aveva acquistato niente, che il pezzo più bello della collezione era ancora lui stesso, e soltanto lui, l'unica cosa che sapeva amare ed apprezzare. Il giorno dopo sarei arrivato qui un po' più tardi dell'ora stabilita, come vogliono le regole, avrei portato con me la pistola e l'avrei ucciso.
Quella sera stessa potei rassicurare Sergio, e il mattino seguente uscii dall'albergo in fretta, portando con me la valigia, pagai il misero conto e mi avviai verso il numero 22.
La città era immersa nella nebbia, che si stendeva su tutto, come il corpo immenso di un drago senza testa, ma in un negozio di fiori vidi esposte all'aperto, sulla strada, alcune piante di giacinto già in fiore.
Feci risuonare il campanello entrando nella bottega dell'antiquario per la terza volta in quei pochi giorni, ma non udii alcuna musica. Riuscivo a comportarmi con estrema naturalezza, esattamente come le altre due volte, anche se l'emozione dell'atto che ero sul punto di compiere determinava le mie emozioni con impulsi contrastanti; erano presenti sia l'antico schifo che normalmente ci impone di non uccidere, sia l'istinto acquisito che accomuna, ormai da millenni, la violenza al successivo piacere, che generalmente la causa.
Avrei ucciso con Penkov anche quella parte di me stesso che ci rendeva simili, che avevo riconosciuto e rifiutato, contrariamente a lui. Compresi che proprio quel rifiuto era la causa della sua sconfitta.
Ma lo trovai morto, e forse avrei dovuto aspettarmelo, se avessi letto bene gli ultimi atteggiamenti della sera precedente, quelle strane contrazioni che avevano a tratti interrotto le sue parole, i suoi sguardi ora incerti e perduti, ora torvi, e il suo passo insicuro, come quello di un diavolo zoppo.
Ma non si trattava di questo soltanto: quei movimenti non erano altro che i sintomi di una situazione senza uscita in cui Penkov si era trovato, stranamente simile a quella che io avevo attribuito a me stesso; era incappato come me in una strozzatura del tempo, ma essa riguardava i suoi stessi ricordi, quelli che aveva dovuto vendere per ottenere quello che si era illuso dovesse essere per lui, per la sua collezione, il pezzo unico e incomparabile.
Tuttavia, per ingannarmi, mi aveva fatto credere di esserne già entrato in possesso, e mi aveva ceduto tutto il resto: privo del passato e del presente non era riuscito a sopravvivere.
Pensai che uno soltanto era stato l'errore fondamentale, quello che l'aveva portato alla morte, ma compresi che, anche se essa non fosse sopraggiunta - diciamo così - naturalmente, per consunzione, in ogni caso, io stesso gliela avrei procurata, quella mattina stessa.
Non aveva saputo valutare nel loro valore le parole di Rada, e perciò me le aveva cedute, anche se ben presto aveva compreso di avere sbagliato. Non aveva afferrato ciò che in verità esse significavano, non aveva accettato l'idea che la fedeltà a un destino, cioè al futuro, potesse determinarlo e plasmarlo. Aveva appuntato tutto l'interesse sull'attimo successivo a quello in cui Rada ci si era offerta, su un desiderio volgare.
Non aveva creduto che ogni avvenimento possa essere determinato dalle nostre azioni, anzi mi aveva lui stesso indotto a credere che la fedeltà fosse ostinazione, che l'amore della verità fosse una follia; aveva addirittura svalutato l'eccezionale unicità di quanto desiderava e millantava di avere già ottenuto, e che invece il destino riservava a me.
Aveva persino osato affermare la necessità di rivolgere altrove il nostro interesse "quando non riusciamo ad ottenere ciò che desideriamo"....
E io stesso ero stato sul punto di credere alle sue parole e di cadere nella sua stessa trappola, dimenticando quelle della Donna: in quel caso l'identificazione tra l'antiquario e me stesso, già così evidente per molti altri aspetti, avrebbe forse portato alla morte anche me. Mi aveva salvato l'aver voluto continuare ostinatamente a credere, al di là di ogni plausibile condizione di tempi e di eventi.
E la salvezza, che coincideva con Rada, non era stata altro che la prefigurazione, la causa e la conseguenza a un tempo, di quell'amore desiderato che materialmente attendeva ancora il proprio compimento.
Provai pena per la mia vittima, e ciò mi apparve strano, perché solo rispetto per il vinto era stato fino ad allora il sentimento che aveva accompagnato le mie vittorie. Mi sfiorò comunque il dubbio che il pezzo più bello, la perfezione di una collezione che tendeva all'eccellenza, non fosse stato, nella mente segreta di Penkov, null'altro che quella morte, e che egli l'avesse desiderata fin dall'inizio, ritenendola più bella dell'amore di Rada e della verità che quella donna incarnava.
Non aveva quindi compreso che possiamo accettare di morire soltanto quando la nostra mente è ovunque, dopo che la verità l'ha posseduta insieme al nostro corpo, cioè solo quando ciò che noi consideriamo la nostra fine è ormai, anch'essa, soltanto un'apparenza.
Mi riscossi presto da questi pensieri, che occupano certo più spazio che tempo, e uscii in fretta.
La nebbia si era alzata e mi diressi in fretta verso la casa di Sergio, suonai il campanello da basso, lui mi aspettava sul pianerottolo, e io gli diedi la scatola con la pistola:
«Non l'ho usata, non è necessario buttarla, vi servirà ancora.»
Mi guardò perplesso e un po' impaurito, chiedendosi chissà quale barbaro modo io avessi usato per uccidere, ma non fece domande.
Dopo pochi minuti eravamo in macchina sulla strada di Giuevo, verso la Macedonia. Il nostro autista era silenzioso e truce, portava i capelli rasi e, al polso sinistro, dei fili di lana intrecciati, rossi e bianchi. Al confine non ci furono problemi, i passaporti erano perfetti, e forse anche l'organizzazione dei nostri interventi sulla nuova polizia bulgara.
Arrivai a Petrovac poco prima di sera, alle baracche della missione militare statunitense, e mi perdetti in una lunga discussione con un tale Grabar, un giovane tenente, sull'ipotesi che la Bulgaria potesse essere ancora considerata "nemica".
Un C-130 mi avrebbe portato ad Atene, da dove avrei dovuto raggiungere Londra.
La mattina dopo ero già in volo verso sud. A sinistra l'alba, che loro dicono sorella del sole, arrossava l'orizzonte, sulla terraferma c'era ancora foschia, ma riuscii a vedere l'Egeo settentrionale e il golfo Termaico.
Giunsi in serata a Salonicco: invece di prendere la coincidenza per Londra avevo infatti deciso diversamente.
Il taxi passò vicino ad Aghia Trias, e riconobbi la strada che la mia vittima aveva percorso per me, la sera dell'invito alla villa di Politídis e che io, Greco di Patrasso, non avevo mai visto prima. Riconobbi anche l'atrio dell'Astoria, con una commozione intensa; era il punto e il momento che aveva determinato tutti gli avvenimenti successivi, e il presente.
Non sarebbe stato sufficiente infatti l'incontro del treno per indurmi a tornare nella città di Rada, per vivere ciò che inevitabilmente e dolcemente mi attendeva.
Rividi il luogo esatto dove lei si era sfilata l'anello promettendosi a me, ma non riuscii a ricordare il suo sguardo né la sua espressione di allora, o il suo volto. Dalla finestra della stanza, che dava a sud, vedevo ancora una volta nuvole grigie portate dal Notiàs, il vento meridionale, arrossate a ovest dal tramonto, e pensai alle labbra di Rada. E il giallo che le sovrastava erano i suoi capelli. Più a destra, quasi nel buio immenso del cielo, il colore dei suoi occhi.
Cercai il numero di telefono e la chiamai, senza ansietà, senza il timore che rispondesse il signor Politídis, che non conoscevo, e col quale non avevo avuto rapporti d'affari o di altro genere. Fu lei a rispondere:
«Parla Lanáras - dissi - mi permetto di disturbarla sperando che lei ricordi il breve colloquio di alcuni giorni fa, sul treno per Sofia... mi consigliò un negozio d'antiquariato...»
Tutte le cose che avevo visto e vissuto in quei pochi giorni mi sembravano coprire un amplissimo intervallo di tempo; non riuscivo a rendermi conto che il mio primo incontro con Rada era straordinariamente vicino: il passato si incurvava e si aggrovigliava su se stesso, in un nastro del quale non riuscivo a individuare le estremità. Ma sospettavo si unissero tra loro a formare un anello involuto. Sentivo il profumo della pelle di Anna, udivo la voce di Rada e vedevo i suoi occhi nei miei, rispecchiati come se ci stessimo guardando.
«Ma certo, - rispose immediatamente - ricordo bene; come mai a Salonicco?»
Le dissi che avevo deciso di non fermarmi a Sofia perché non avevo trovato l'amico che cercavo, e che avevo intenzione di prolungare un po' il viaggio..
«Fino ad Alexandroupolis, poi forse fino ad Istambúl... Costantinopoli, mi scusi! O è meglio chiamarla addirittura I Pólis, come noi Greci dovremmo?»
La sentii ridere, e ricordai il suo volto, e la curva del collo ornato dalla corniola del Deccan.
«Alloggio all'Astoria, e mi chiedevo se era possibile incontrarci prima che io continui il mio giro, - trovai il coraggio di proporle - penso che potrei raccontarle dei miei nuovi acquisti. Ho trovato qualcosa che sarà impossibile ridurre in coabitazione con gli altri oggetti della mia collezione di antichità, e inoltre... dovrei parlarle di qualcosa che non mi sento di dirle al telefono...»
Rise un po' inquieta, quasi avesse inteso la frase come una banale avance, ma subito sembrò intuire che non era così, o comprendere che si trattava di qualcosa di serio; e allora, con un tono basso, come scandendo le sillabe, mi disse:
«Proprio all'Astoria? ...vediamoci allora domattina in città, - io abito un po' fuori - lei conosce la rotonda di S.Giorgio? Non è molto lontana dal suo albergo. Va bene alle undici?»
Come potevo non essere d'accordo sul luogo e sull'ora: essi, come ogni altro aspetto di quei momenti e di quelle parole, mi riconducevano a ciò che pensavo di aver già vissuto, e con un'inusitata emozione.
Mi addormentai con quella controllata e gioiosa inquietudine che ormai accompagnava tutte le mie sere, da quando avevo incontrato quella donna. Ma il sogno che, variamente interrotto e ripreso, occupò il mio sonno con diverse configurazioni di tempo e di situazioni, fu qualcosa di nuovo e sconvolgente: lei mi parlava, e pronunciava parole che quasi non riuscivo a sentire a causa del loro tono basso, sussurrato; eppure potevo ugualmente comprendere il senso di ciò che diceva, anche se si trattava di un sogno:
«Non è possibile analizzare nulla in maniera separata e indipendente, nemmeno gli oggetti di una collezione, che potrebbe essere presa a simbolo di tutto ciò che esiste. Ogni tentativo di isolamento, di individuazione, è solo un'astrazione perché le proprietà di un oggetto sono definibili e osservabili solo attraverso le loro interazioni con altri sistemi, e noi non siamo altro da ciò che ci circonda. Non possiamo descriverli o spiegarli, ma solo metterci in relazione con essi, e ciò crea un tessuto complicato, una rete.»
Mi sembrava di assistere a qualcosa di più di una lezione, perché quei concetti apparentemente freddi, quasi scientifici, anche se ispirati ai leggeri ragionamenti sugli oggetti d'antiquariato, e la loro indubitabile connotazione filosofica, erano alterati dall' indeterminatezza del sogno. Essi suonavano per me piuttosto come parole d'amore, come frasi interrotte dal gemito della passione nel momento in cui mi sentivo pienamente posseduto dal suo corpo, e le nostre anime sembravano svuotarsi dal desiderio di vivere ancora, di sperimentare qualsiasi altra cosa diversa da un istante irripetibile, che svilisce ogni altro momento, presente o futuro, anche di poco dissimile, o meno bello.
Poi, nel sogno, ritornavo al momento che precede l'amore, quello della nudità desiderata. Il suo corpo, prima velato da una cortina di desideri e di pensieri ingombranti, appariva splendente di luce interna, come avviene per i nostri marmi greci, e narrava ogni storia, chiariva ogni enigma, annullando la paura di ciò che è ignoto, e della stessa morte, alla quale il ritmo accelerato del respiro e del palpito ci avvicinavano con velocità incalzante, come verso un lontanissimo sole, sempre più vicino e più desiderato...
Le parole, anche se di filosofia, erano quindi del tutto adeguate a quella verità svelata e nuda, a quell'interrompersi del tempo, alla sostanza di un amore così estraneo a quanto noi comunemente desideriamo e così simile, una volta noto, a ciò che soltanto nel sogno possiamo concretamente sperimentare, prima di essere giunti a conoscerlo nella realtà.
L'unica cosa che avesse un senso mi appariva alla fine soltanto la connessione, non la concretezza di ciò che nell'amore sembrava unirsi, e invece si riuniva. La realtà sfuggiva dalla sostanza e si propagava, come un'onda, nella sovrapposizione e nella combinazione di eventi irripetibili e confluenti, che solo nella loro coerenza trovavano un significato.
Essi mi apparivano, quasi in una mitologia ignota a molti, materializzati in una rete di perle ognuna delle quali rifletteva tutte le altre, e rispecchiava contemporaneamente il corpo nudo della donna che, svelandosi, si costituiva in totalità, e i miei occhi. In essi i suoi occhi, e ognuna di quelle perle, e l'infinito numero pari dei nostri corpi nudi e luminosi, identici l'uno all'altro, e ogni altra cosa riflessa brillavano oltre misura, in una luminosità lattiginosa.
Ma subito il tempo della nudità era seguito di nuovo da quello dell'amore, in cui ognuna delle perle riflettenti e riflesse si avvicinava alle altre, finché si fondevano in un'unica sfera il cui oriente riuniva in sé tutta la luce dell'estensione precedente.
L'energia che ne scaturiva si manifestava con una risonanza lenta di fiati, che si estingueva in un gemito lungo ed estenuato, ma tenue e dolce.
E ogni senso ne veniva coinvolto, così che la condensazione di tutti quei corpi, dei nostri corpi e della luce si trasformava di fatto in un'esplosione che riaccendeva il gemito e lo faceva fiorire sulle labbra stanche, che presto risentivano la nostalgia del tumulto e lo invocavano ancora, all'infinito, nell'abbandono tiepido del sangue che riprendeva a fluire con ritmi pacati.
Quella rete di perle era l'immagine di tutto ciò che esiste, e che noi possiamo, quindi dobbiamo conoscere: era anzi la conoscenza stessa.
Questa volta, alla Rotonda, la attesi col sole alla mia destra, da dove sapevo sarebbe giunta ed ebbi così la possibilità di vederla da lontano, di godere il suo dirigersi verso di me, proprio verso di me e nessun altro.
Indossava una giacca gialla su un abito di seta, come nel treno. Il suo passo era svelto ma composto, non affrettato, la sua espressione fu prima seria e poi sorridente, ma non si rivolse a me col "tu" che mi attendevo:
«Buongiorno signor Lanáras!»
Mi tese la mano e mi apparve completamente diversa dalla donna che avevo amato nel sogno di quella notte, eppure non avevo alcun dubbio che si trattasse della stessa persona. Ben presto tuttavia colsi un'espressione particolare nei suoi occhi, tra divertita e intenta. Quello sguardo comunicava qualcosa che proveniva dal profondo dei suoi sensi, della sua concreta corporeità, ma che nell'esprimersi si scarnificava, presentandosi all'esterno in una forma più lieve, quasi spirituale.
Fu proprio quest'espressione, e ciò che sottintendeva, a farmi riconoscere con sicurezza la mia amante sognata, e colei che lo sarebbe stata anche nella realtà, se solo avessi continuato a credere.
Ci avviammo, come su un sentiero noto, verso lo Yacht Club, e senza esitazioni scegliemmo il tavolino di ferro dell'altra volta, quando mi aveva detto cose che non avevo dimenticato e che mi avevano riportato, quasi indipendentemente dalla mia volontà, inevitabilmente, al ritorno e alla ripetizione.
Eravamo entrambi completamente diversi da allora. Sembrava quasi recitassimo dandoci del lei, facendo riferimento esclusivamente al nostro incontro sul treno; eppure i nostri occhi si incontravano spesso in sguardi prolungati e non innocenti, e indugiavano sulle nostre bocche, ed entrambi godevamo il suono delle nostre voci e la prossimità delle nostre mani, che peraltro evitavamo accuratamente si toccassero.
Ci eravamo già conosciuti, e forse non solo fino al momento della sospensione dolorosa nell'atrio: sospettavo fortemente che il mio sogno non fosse realmente o solamente un sogno, ero convinto di averlo condiviso con Rada, di essere stato pensato da lei, sognato, ed amato; l'abito amaranto di crêpe si tendeva leggermente su un corpo che ero certo di conoscere in ogni modo possibile.
Non riuscivo a trovare le parole per iniziare un discorso che prima avevo immaginato non poter essere altro che la prosecuzione di quello precedente, né lei all'inizio mi aiutò, perché continuava a tacere, concentrata e assorbita all'interno di sé, sia pure guardando me, come si specchiasse. Ma di fronte al mio imbarazzo iniziò:
«Forse lei voleva dirmi, senza trovare le parole per farlo, che il signor Penkov è morto; ne sono già al corrente, e non può credere quanto la notizia, che è recentissima, mi abbia colpita, anche se forse non nel senso, o nel modo, in cui queste cose solitamente avvengono.»
E mi guardò ora in modo completamente diverso dagli istanti precedenti, come conoscesse ogni cosa di me e di tutto ciò che era avvenuto a Sofia.
«Ma mi dica piuttosto dei suoi acquisti, è riuscito ad avere qualcosa da lui? Non mi nasconda nulla, non è necessario che lei menta neanche un poco, non simuli, come dobbiamo fare troppo spesso, sentimenti o emozioni che non prova, o quelle virtù che lei sa essere soltanto delle maschere. Apparteniamo entrambi ad un'aristocrazia travisata ed occulta, libera da mode e schematismi.»
Cominciavo alfine a comprendere: le parole che avevo udito da lei quando ero divenuto il padrone dei ricordi di Penkov e quelle che lui stesso aveva pronunciato si ripetevano e si confondevano con identiche cose che io avevo detto a me stesso più volte, ma senza saperle definire con quella tagliente chiarezza che ora mi appariva. E quindi continuai ad ascoltarla, tutto rivolto a lei, senza interromperla...
«Io so bene che il mio amico vendeva i suoi ricordi, e so anche perché lo faceva: mi voleva nella sua collezione, ma non riuscì mai a comprendere che ciò era impossibile, perché non sapeva uscire da sé, non era capace di rinunciare al concetto di collezione, cioè di una giustapposizione di oggetti diversi e separati, e del possesso.
Non so se tra ciò che lei ha sottratto a Penkov ci sia qualcosa che mi riguarda, ma lo sospetto fortemente, perché il desiderio di me lo rendeva schiavo al punto che io credo egli non riuscisse a comprendere l'importanza di ciò che da me aveva già avuto, - so che lei è in grado di non fraintendermi - ed è quindi possibile che le abbia ceduto qualcosa di veramente prezioso, senza rendersi conto che in esso stava la chiave anche di ciò che egli immeritatamente si attendeva.
Non vorrei quindi che volgarmente, come era successo a lui, lei pensasse ora di essere padrone di un destino senza averlo riconosciuto ed accettato, senza aver compreso concetti pervenuti indirettamente e perciò probabilmente alterati, ma so anche che potrebbe non essere così, anche se lo temo.e lo desidero contemporaneamente Conosco infatti solo le sue emozioni, e il suo corpo, come lei sa, e la piccola cicatrice sopra il ginocchio, ma non i suoi veri pensieri, e la piena disponibilità ad accogliere quanto le è dovuto.»
Quel riferirsi al mio corpo non si accordava né con i ricordi di Penkov, né con il nostro breve incontro in treno; restavano due possibilità: il suo essere stata Anna, o il sogno della sera prima...
«Io ho avuto da Penkov tutto ciò di cui disponeva, - risposi - tutto quello che non aveva ancora ceduto, che del resto considerava poco e per lui aveva minor valore di quanto invece si attendeva. Lei può quindi comprendere perché io sia qui, e chi io sia: non certo il futile e occasionale compagno di un viaggio breve, per quanto intenso e promettente esso sia stato per me.»
Il sole brillava sui suoi capelli, e i suoi occhi sposavano il colore del mare; lo zaffiro era lo stesso del nostro rito iniziato e inconcluso. Era riuscita a sbloccare la situazione, ad avviare il discorso con una logica inoppugnabile: non vi era nulla di magico nel suo sapere ciò che era avvenuto in quei giorni, era solo il frutto di un ragionamento induttivo e coerente. Se ero stato cliente di un venditore di ricordi, che altro avrei potuto comprare da lui?
Compresi allora che avrei potuto continuare a parlarle senza timori di non essere compreso, o di urtare la sua suscettibilità, o la sua privacy. Questa convinzione mi concedeva di essere rilassato e schietto, di parlarle senza alcuna necessità di infingimenti o di cautele.
«Conosco ciò che ha detto qui, in questo medesimo luogo, al nostro amico antiquario. Anzi sono ormai l'unica persona alla quale quei fatti appartengano; quelle parole hanno avuto un effetto determinante su di me, ed è per esse che sono qui. Avendole sentite e comprese mi ero illuso che Penkov potesse cedermi anche il seguito di quell'amore, ciò che io supponevo fosse successo dopo che tu ti eri sfilata l'anello nell'atrio dell'Astoria. Pensavo infatti che anch'egli le avesse comprese, ma non era così.
Vilmente lo sollecitai a cedermi quella parte di se stesso e di te che io credevo possedesse; non mi rendevo conto che non bastavano le parole, se non erano anche comprese e credute, che qualsiasi certezza futura si concretizza solo con l'azione, e che i fatti che dobbiamo determinare o attendere per essere fedeli alle promesse del nostro destino non sono assolutamente cedibili, non sono mai in vendita. Desideravo anch'io soltanto il tuo corpo, non il compiersi di quel destino.»
Pose la sua mano sulla mia, che già quasi sfiorava, e mi sorrise, e mi chiamò per nome, poi disse:
«Non ho paura di te, voglio sia vero quello che dici, anche se mi è ancora difficile distinguerti da quell'uomo che non ha saputo capire, nonostante la sua intelligenza acuta, e la sua straordinaria sensibilità. Fui delusa da lui, lo sai; non avrebbe mai potuto farti vivere ciò che non c'è mai stato. Tu però sei un altro, e ora avresti il diritto di chiederti perché io ti abbia indirizzato da lui quando ci siamo incontrati in treno, se già sapevo che cosa egli poneva in vendita, e che il mio suggerimento avrebbe finito per legarti a me e coinvolgerti in una vicenda che mi aveva ferita e mi aveva tolto quasi del tutto la convinzione di poter ottenere qualsiasi cosa desiderassi, cioè qualsiasi cosa io riconoscessi come destinata a me.
La delusione mi aveva portato a identificare in un altro uomo colui che Costantino aveva dimostrato di non essere - come vedi non poteva che morire - e fu un amico di mio marito. Mi sono offerta a lui perché mi ascoltava con devozione, era raffinato e gentile, dolce come una donna, e amava anche lui il rischio. È ora quello che con una parola volgare la gente direbbe il mio amante. A volte temo di aver sbagliato ancora, ed è proprio questo timore che mi ha indotta a darti l'indirizzo di Sofia, quasi a controllare se non fossero altre le azioni e l'avvenire che desideravo e che dovevo ancora riconoscere come miei, quasi per provocare me stessa.
Da quanto ti dico, con quest'insistenza sulla necessità di agire, tu potresti pensare che io affermi la necessità di fare, di operare, di volere raggiungere uno scopo: tutto questo sarebbe profondamente volgare, e misero.
Non è così che si giunge alla sapienza, alla sua onnipotenza, a ciò che tu ora identifichi in me.
Non è così: ogni cosa già è, ogni atto futuro e desiderato esiste da sempre, e perciò lo desideriamo. Ogni tempo e ogni evento sono coincidenti e sovrapponibili, sono ripetuti infinitamente in luoghi e tempi che sono diversi solo all'apparenza, solo ai nostri occhi velati.
Perché dovremmo allora sforzarci, lottare, umiliarci, per ottenere qualcosa che abbiamo già?
È invece sufficiente riconoscere, capire e credere che ciò che vogliamo esiste, e risiede proprio in questo la fedeltà al destino... Non occorre alcuno sforzo, abbiamo ciò che sappiamo.
Se conosciamo entrambi ciò che ci attende, quello che tu speri sarà, inevitabilmente. Ma non basta, è l'evento che materializza la forma, che perfeziona l'attesa.
È il momento estremo, tanto importante da imporci di non cercarlo, di non nominarlo, ma solo di aprirci ad esso, di essere grandi come il cielo per accoglierlo.»
Come colpito da un ricordo improvviso infilai la mano nella tasca della giacca e trovai il tovagliolino di carta che Rada aveva dato a Penkov, e che lui non aveva letto. Gli diedi una rapida occhiata, perché ero troppo preso da quanto lei mi stava dicendo: riconobbi sei caratteri ebraici che mi ricordarono qualcosa, ma decisi di rinviare l'esame di quelle lettere strane.
Non riuscivo quasi più a seguire il suo discorso, che mi appariva irrazionale e contraddittorio: l'accenno che aveva fatto al suo amante mi inquietava dolorosamente, mi sprofondava ancora nella disperazione di ottenere, con lei, la verità priva di veli che sapevo esserci.
Il filo del ragionamento s'interrompeva, e non ne venivo a capo, le sue stesse parole si negavano nella realtà dei fatti. Come un adolescente stupido fui geloso, spostai il discorso su concetti banali, cercando di assumere un atteggiamento di indifferenza evidentemente falso, che non avrebbe ingannato nessuno:
«Non potevo pensare che esistesse un altro uomo, sono deluso anch'io, non ami tuo marito?»
Era una domanda stupida, se si considerava che chi la poneva si attendeva di essere l'unico e il tutto, perché non era ancora riuscito a sollevarsi da schematismi rigidi e rozzi. Ma lei si limitò a sorridere, né fu minimamente offesa come sarebbe stato normale, poi disse:
«Tu ancora non riesci a capire che non è facile riconoscere, sapere, ritrovarsi, in questo mare fangoso di individuazioni e di chiusure; non è facile che l'acqua si faccia limpida e diventi un unico specchio lucente che accoglie ogni cosa e la sua immagine, e non si debba più credere che si tratta di cose diverse. Anch'io sono spesso indotta ad evitare ciò che è difficile nascondendomi dietro la glorificazione della rinuncia, che però ha valore solo quando non è determinata da viltà. Ma forse a volte sono vile, e cerco le cose più facili, e mi consolo dicendomi che questa è la saggezza, anche se so che non è vero. Sono invece convinta che in certi casi solo il rischio, l'eccesso possono farci godere delle eccedenze di una mente e di una sensibilità incapaci di fermarsi, di adeguarsi al quotidiano. In ogni caso per ora è così, io credo che questi siano i miei risultati definitivi, ma se ciò che ti lega a me da sempre è più forte di quello che io ora credo, non potrà che mutare ogni cosa, e stravolgere tutto.»
Incapace di vincere la mia ansia, e con l'orgoglio miserabile dello sconfitto, le raccontai del mio sogno, quasi con sfida:
«Non ho bisogno di realizzazioni, di concretizzazioni, della prova costituita dall'evento: l'evento c'è già stato. Questa notte ci siamo amati perché io ho creduto alle parole che tu mi hai detto in questo stesso luogo, che hai detto a Penkov, e io le ho accolte e custodite come una perla preziosa, quindi non può che essere tutto vero, tutto inevitabile, non c'è alternativa. Ciò che doveva essere è già stato, e può bastare.»
Mi guardò con dolcezza, poi disse:
«E'una vecchia storia, questa del sogno e della realtà: non ho nessun dubbio sul fatto che quanto chiamiamo realtà non sia altro che un sogno denso, e il sogno una realtà rarefatta, ma forse la nostra volontà di concretezza serve proprio a non abbandonarci totalmente ai sogni, come fumatori d'oppio.»
Mi confermò poi che quel sogno era stato contemporaneo e coincidente, e ciò mi consolò. Pensai di averla convinta, e sorrisi, soddisfatto di me stesso, quasi come un vincitore che ha aggiunto un altro oggetto alla collezione, e dimostrando di non aver capito quanto aveva appena detto.
Mi bastava aver vinto. Lei se ne rese conto, si riscosse e mi guardò con disprezzo, quasi con astio, poi se ne andò.
Mi avviai verso l'albergo, sconsolato, indeciso se partire il giorno stesso o attendere il farsi degli eventi. Cominciavo a comprendere l'insufficienza del sogno.
Sentivo che vi era in me qualcosa di stonato, mi resi conto che era l'intensità del desiderio a impedirmi di realizzarlo, che era la volontà, il sentirmi uno, individuato e solo, a combattere; non riuscivo quindi a credere abbastanza, ad essere sicuro di me stesso e di ogni cosa, ad attendere con calma sicura.
Decisi di fermarmi qualche giorno a Salonicco, dato che nemmeno il mio vecchio lavoro aveva ormai alcuna attrattiva per me. Camminavo lungo le rive, apparentemente triste, ma inspiegabilmente mi sentivo ogni giorno più quieto, nonostante l'assenza di lei fosse ancora dolorosa.
Un mattino, da lontano, la vidi arrivare al Club con un uomo che mi apparve effeminato e piccolo. Mi dissi che non poteva essere suo, perché io lo ero da sempre, e questa illusione mi consolò, e fui sul punto di cominciare a vivere come un folle, nell'unica dimensione del sogno.
Ma subito ripensai e seppi credere ancora alle ultime cose che mi aveva detto, alla necessità dell'evento quale conferma e risultato insieme di ogni realtà e di ogni desiderio.
Quella sera stessa, mentre la pensavo disteso sul letto della mia camera, ripresi in mano il foglietto che ora era soltanto mio, che forse sempre lo era stato. Mi accorsi che il significato di quelle sei lettere, che erano disposte su due righe, era del tutto chiaro, e riassumeva in sé tutto ciò che Rada e Penkov avevano cercato di comunicarmi, anche se in modi diversi, quello che io inconsapevolmente avevo cercato nel rischio, e quello che Anna, o forse anche la signora Österlund mi avevano donato in silenzio.
Sentii ancora una volta, senza dubbi o tormenti, che anche lei mi stava pensando, e mi addormentai quasi impaurito da una certezza che non avevo mai provato prima, perché tutte le convinzioni precedenti mi apparivano ora inquinate dall'insicurezza e dalla incapacità di rimanere estraneo a me stesso e al desiderio.
Era la certezza dolce e paurosa dell'approssimarsi alla conclusione, al compiersi del desiderio e del destino che lo suscita.
Sono passati pochi giorni, ma non sono riuscito, fortunatamente, ad avere una nozione esatta del tempo: potrebbe essere trascorso un anno intero, o un attimo: ho compreso quanto poco contino le ore, e il valore che attribuiamo ad esse.
Mi sono addormentato felice, e, il mattino dopo, l'ho attesa nell'atrio, sicuro di vederla arrivare.
Le sono andato incontro di qualche passo quando l'ho vista. Si è sfilata l'anello. Poi sorridendo, tutta rivolta a me, senza pudori, mi ha detto:
«Vieni?»
Il tempo ritorna ancora una volta ad un punto immobile e ripetuto, alla circolarità conclusa in se stessa che ora non mi spaventa più, ma che rende invece eterno il momento del desiderio compiuto, dopo l'attesa pacata e certa.
Mancano però ancora l'evento e il consenso, affinché tutto non si riduca di nuovo a un sogno, perché io non debba temere di essere fuori dalla realtà, perché lei dimostri a sé di non avere paura, di accettare qualsiasi rischio, e di giocare la sua stessa vita, nell'eccesso.
E' per questo che saliamo insieme, come Costantino non aveva saputo fare. Non occorre mi dica nulla.
È nuda, come devono essere la verità, e la saggezza che la svela, poi resta solo un eterno identificarsi e coincidere, che provoca l'unione perfetta di tutto ciò che esiste, e un gemito dolce, eterno, di un piacere destinato a non finire, mentre ogni condizione diversa sembra estinguersi fondendosi con tutte le altre. È una serie sacra di atti perfetti, composti in liturgia. Ognuno di essi è misurato ed esattamente adeguato a ogni altro, in un ritmo controllabile e pacato, in cui ogni attimo segue quello precedente secondo un ordine e una necessità inalterabili.
Con alterne fasi, come in un'onda, il controllo ci sfugge, perché usciamo da noi stessi a causa dei gesti d'amore, e si trasferisce al ritmo stesso, che ci domina e ci guida, sostituendosi sapientemente, nella scelta degli atti, alla nostra follia.
E in questo sottilissimo svolgersi di abbandoni e di rinvenimenti sentiamo in gioco le nostre stesse esistenze, che il desiderio di un piacere sempre crescente potrebbe immobilizzare in un collasso dei sensi, estremo e accettato. In questi passaggi, nell'alternanza delle fasi si realizza la coincidenza geometrica di noi stessi, del nostro amore, degli atti convulsi che lo esprimono e di chi li compie, e non siamo altro che le nostre azioni, le nostre bocche sono i nostri baci, i nostri nervi e il piacere che ne traiamo sono la medesima cosa.
Nessuna delle fredde volgarità che noi comunemente chiamiamo amore, e che ci lasciano delusi, chiusi in noi stessi e al mondo in un vuoto cerimoniale di cui a un certo punto non cogliamo più il senso, può essere paragonato a ciò che stiamo scoprendo, mentre, con ogni altro essere, partecipiamo a quel rito di estinzione, che conclude il nostro tempo, ogni tempo, bloccandoli in una sospensione inconcludibile, annullando ogni distanza, ogni spazio, concentrando tutto in una contiguità perfetta.
Quando lo svolgimento degli eventi trasforma la nostra volontà irragionevole di ottenere un piacere sempre più forte nel piacere stesso, e noi sentiamo e quasi desideriamo la possibilità di una conclusione definitiva e crudele, in questo straordinario rito viene inaspettatamente soddisfatto l'amore del rischio, inutilmente cercato nella violenza e nell'odio, nella lotta e nel desiderio di vincere.
Sento le sue labbra implicate in ogni eccessiva possibile tenerezza, la sua fantasia umida che mi avvolge l'anima, e mi respira al ritmo ossessivo del cuore di chi corre; le mie labbra gonfie e screpolate possono ormai essere ferite a sangue dalla sua bocca.
Vivo solo del sapore, della consistenza, di una scorza ora liscia ora scabra, che sfioro, delle sue dita lente che percorrono pensieri conosciuti da sempre..
Ogni ritmo e ogni gesto, ogni lieve variare dei movimenti e del desiderio, è compreso e soddisfatto senza cenni o parole, come fosse richiesto a se stessi.
Ogni ansimo è forte come un grido, come i suoni per chi ha la febbre, e dolce come una parola d'amore.
Ogni atto, ogni sguardo ossessivo sono contemporaneamente ricevuti e donati ad un unico corpo, appartengono ad entrambi ed a chiunque.
Siamo un universo che gode di se stesso, in assoluta perfezione..
Sono giunto alla fine: il nastro del tempo, involuto e chiuso, che solo qualche giorno fa mi aveva impaurito e angosciato, ancora una volta riappare, rendendo eterno ed estremo il culmine di ogni conoscenza, che è la sapienza, e coincide con questo estremo fruire dei sensi sollecitati e tesi oltre i limiti che comunemente ci ingombrano, come un dono prima inimmaginabile.
Infine, dopo un'ultima ritmica accelerazione, il tempo si ferma, si estingue per noi e per ogni altro essere, l'universo stesso cessa di muoversi, ogni orbita diviene un punto.
Nulla più - dolorosamente - si muove, la quiete è assoluta: come in un sogno, ma ormai senza alcun timore che lo sia davvero, sono di nuovo, e per sempre, nell'atrio, vedo Rada sfilarsi l'anello, come in un rito che precede una liturgia ormai nota, e che la rende più bella nell'attesa, destinata a continuare, indefinitamente.
E mi ripete:
«Vieni?»
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