Ottavio de Manzini

DUE ARCHIBUSATE





Colmo, in lingua croata Hum, è oggi un piccolo borgo con poche decine di abitanti, in Iugoslavia * , a circa 60 km. da Trieste. E in cima a un colle al confine tra le dolci ondulazioni dell'Istria e il ciglione del Carso.

Per giungervi si percorrono strade praticamente deserte lungo le quali non si incontrano case per decine di chilometri, immerse in una vegetazione ricca e folta.

In questa regione il tempo si è fermato a molti anni fa: l'agricoltura è praticamente inesistente e non vi sono che rarissimi insediamenti industriali per cui gli abitanti se ne sono quasi tutti andati lasciando intatte le case di pietra e le mura veneziane che a volte, come non lontano da qui, a Rozzo (Roc’) conservano ancora bocche da fuoco con le quali Venezia difendeva queste sue fortezze, sparse lungo il confine con l'Impero.

Giunti a Colmo si trova, proprio nella pusterla, l'osteria della signora Ondina con sapori e vini di altri tempi. E’ una proposta turistica specie per gli appassionati che si spingono a Trieste per visitare l'armeria del Castello di S. Giusto o che si recheranno a Capodistria per vedere le armi antiche di quel museo del quale spero di poter parlare su queste pagine quando sarà inaugurato dopo il restauro ora in corso.

Sono terre che furono nostre, venete, e che abbiamo dovuto lasciare ma sulle quali i nostri antenati vissero, lavorarono, morirono. E’ di una di queste morti, morte violenta, che tratta il documento trascritto e che costituisce una testimonianza dell'uso di armi da fuoco in combattimenti «privati» nel XVI sec. e in una zona lontana dai luoghi di produzione, dove le armi non dovevano essere molto diffuse, contrariamente alla Lombardia dove sono abbondantemente testimoniate, nel secolo successivo peraltro, da quel puntiglioso ricercatore del vero storico che fu il Manzoni.

Copia della sententia criminal publicata a dì 2 dicembre 1591, tratta dal libro dille publicationi per arengo del colendissimo
Signor Nicolò Salamon,
Capitano di Raspo

Gasparo Rabbar quondam di Francesco
Girolamo di Boni quondam Polo

Processati per il colendissimo processor nostro supra et per la imputatione della morte per loro perpetrata nella persona del quondam Giacomo Manzin che all'hora si ritrovava puntato perla morte del quondam Zuan Daniel Rabbar fratello del suditto Gasparo insieme con Manzin de Manzini et suoi complici, contra il qual Manzin haveno li preditti inquisiti et processati sparate alcune archibusate fuori d'una casa all'incontro di quella di essi puntati nella quale stavano ascosi e sentendo detto quondam Giacomo che era dentro in casa il rumore, venuto zoso della scala nel piazzal fu colto dalli ditti processati de due archibusate nel torace per le quali subito cade morto, et come più chiaramente nel processo si legge: proclamati et iscolparsi della ditta morte comparvero et constituiti confessarono aver commisso il delitto, et riaverlo potuto fare impunemente con mandato fatto da esso colendissimo processar nostro alli ditti manzini di non partirsi dalla ditta casa assignatali per prigione adducendo in conformità un consulto fatto dal colendissimo Biligno, onde visto et ben considerate tutte le qualità in esso contenute con le cause insieme procedendo alla espedizione condannemo li sudditti Gasparo et Girolamo in ducati cinquanta da essere isborsati in termine di mesi doi alla moglie e figliuoli de ditto quondam Giacomo Manzin et questo per tutto l'accesso e nelle spese.

Le troviamo invece a Colmo all'estremo confine nordorientale della Repubblica Veneta e in mano a privati.
Il documento che è un atto giuridico e riporta una sentenza del capitano di Raspo, rappresentante del Doge in terra istriana, comandante militare e giudice ad un tempo, non lascia dubbi sui motivi dell'omicidio: si trattava della vendetta per l'uccisione di un fratello. Ma quanto altro sangue ci fosse «a monte» non è dato di sapere.

Certo è che Giacomo e il fratello Manzino avevano ucciso Daniele Rabbar, avevano ottenuto poi di non essere incarcerati ma di essere posti agli arresti domiciliari, che il fratello del Rabbar e il di Boni avevano atteso,. entrambi armati, che Giacomo uscisse dalla casa dove attendeva il giudizio e lo avevano ucciso con due colpi ben assestati. Per tale reato erano stati condannati ad una pena pecuniaria.

Dal punto di vista dell'appassionato di armi il documento è sicura testimonianza del possesso, dell'impiego e della pratica delle armi da fuoco alla fine del 500 in una regione lontanissima dai grandi centri e dalle grandi vie di comunicazione anche se importante dal punto di vista strategico. La nostra curiosità però si accende intorno all'ipotesi del tipo di armi usate; propendiamo a credere che si sia trattato di archibugi a serpentino se non addirittura a miccia. Appare improbabile date le caratteristiche d'el luogo che si sia trattato di armi con meccanismo a ruota o con meccanismo a focile che solo in quegli anni incominciavano a diffondersi.

Ma queste ipotesi hanno poca importanza: se vi recate a Colmo e la sera vi sorprende con lo stridio delle civette tra gli ippocastani o presso le mura vicino alla chiesetta di S. Girolamo e al cimitero, vi sembrerà forse di sentire due «archibusiate» rimbombare nel vecchio borgo fortificato e rompere per un attimo il silenzio secolare che ancora vi grava.

 

Nota:

l'articolo è stato pubblicato nel 1984

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